mercoledì 30 giugno 2010

L'ultima stagione, parte 4 di 5

Dalla parte di Laura

Il signore e la signora Orlando vivono in questa casa da dieci anni, che poi era il periodo di tempo in cui ci aveva vissuto anche Marco. Per loro però aveva un significato diverso: era il punto di arrivo dove tutto sarebbe finito, prima o poi. Per Marco invece è stato il punto d'inizio, l'utero in cemento armato in cui sognava di tornare, prima o poi.
Non era lontana da casa nostra e decidemmo quindi di andarci a piedi. Attraversammo un piccolo sentiero tracciato tra le ortiche. Dovetti stare attenta a non pungermi. Indossavo degli shorts e delle scarpe aperte. Marco invece, fiero del suo look sempre uguale come l'eroe di un fumetto, aveva dei jeans blu e una maglietta a tinta unita, rossa.
Si guardava attorno come se fosse tutto nuovo, eppure era rimasto tutto com'era tranne che per quella tinta gialla che non gli andava giù. Sembra il vomito di un cinese, diceva, come se i cinesi vomitassero giallo e come se vedesse tutti i giorni cinesi vomitare.
Il signore e la signora Orlando si chiamano rispettivamente Alfredo e Maria Letizia. Lui aveva circa settantacinque anni, sei in meno di lei, ma ne dimostrava dieci di più. Il cancro lo aveva reso pallido e scarnificato sotto gli zigomi. Il volto era un reticolo di rughe che, a detta della signora Orlando, sono nate soltanto in quest'ultimo anno.
– Ho fatto la torta di more – disse dopo aver spalancato la porta. Mi strinse le spalle con le sue mani tozze. Io accennai un mugolio di interesse verso la torta poi dissi:
– Lui è Marco.
– Certo, certo, Marco. So che sei cresciuto qui, vero? L'abbiamo presa dieci anni fa. Il povero Alfredo la vide sulla rivista di una ditta che vende immobili e se ne innamorò immediatamente. E' rimasto tutto com'era tranne il colore. Al povero Alfredo non piaceva il marrone. Ti piace il giallo? E' il mio colore preferito.
– Sì – rispose Marco calmo – mi ricorda un campo di grano.
Non pensavo che sapesse mentire così bene.
– Le piace il limoncello signora? – Marco porse la bottiglia che aveva in mano e finalmente riuscì a sorridere alla donna.
– Certo, certo che mi piace. E poi ci sta bene con i dolci. Cucino molti dolci. Entrate, vi faccio vedere la casa e poi mangiamo una fetta di torta di more e l'accompagniamo con il limoncello.
Una volta tornati a casa Marco mi disse che era rimasto tutto com'era anche dentro. Addirittura gli stessi vecchi quadri che raffiguravano campi di grano e papaveri, gli stessi soprammobili in porcellana raccattati nelle fiere di paese e la stessa carta da parati, così spenta ormai, che sembrava ci fosse stata passata una mano di vernice. La prima porta a destra era la sala da pranzo. Era arredata con una vetrina in noce, grande quanto una parete, e conteneva probabilmente un centinaio di bicchieri di ogni tipo. C'era poi un divano verde, dello stesso colore della tenda che copriva la finestra, e un mobile porta–tv sulla parete opposta. Al centro un tavolino in vetro maniacalmente pulito. Sulle pareti, in ogni parte, la signora Orlando aveva appeso piatti dipinti a mano che Marco guardava piegando la testa una volta a destra l'altra a sinistra.
– Ti piacciono i piatti? – chiese Maria Letizia. Conoscendolo ero sicura che li trovasse kitsch e che pensava che un bambino di cinque anni li avrebbe dipinti meglio. Maria Luisa invece non poteva saperlo.
– Qual è la tua stagione preferita?
– L'ultima – rispose lui.
La signora Orlando si alzò sulle punte e borbottò.
– Certo, certo, l'inverno – Stava per prendere il piatto su cui era ritratto un paesaggio invernale quando Marco le fermò il braccio. Rimasi a fissarlo senza respirare. Pensavo che adesso le dicesse: “no guardi, si risparmi il regalo, fa troppo schifo”.
Invece disse:
– L'ultima stagione per me è l'estate, non l'inverno.
– Certo, l'estate – disse la signora. Lasciò andare il piatto con l'inverno e ne prese un secondo in cui era raffigurato un pesco carico di frutta di fronte a un prato. Il piatto con l'inverno pensai che non era male. A parte il pupazzo di neve troppo grande rispetto alla casa e la fila di pini lungo il viale che non rispettava la prospettiva. Non era male, tutto sommato.
Quando tempo dopo gli chiesi perché considerasse l'estate l'ultima stagione mi rispose che aveva sempre avuto in testa il calendario scolastico: la scuola inizia a settembre, quando l'estate è ormai finita.
Ci spostammo in cucina dove la signora Orlando aveva già sistemato tre tazze per il tè con relativi sottopiatti, tre tovagliolini accanto a ogni tazza e un cucchiaino per girare, perfettamente allineato con le righe dei ricami del tovagliolino. Al centro c'era una biscottiera e un vaso di marmellata fatta in casa. Marco entrando disse: “speriamo che sappia davvero cucinare bene”. Feci un gesto impaziente e gli dissi di smetterla. La signora ci chiese di accomodarci. Prendemmo posto a tavola. Lei nel frattempo accese il gas e mise a bollire l'acqua.
– L'avevi già avvertita che saremmo venuti? – mi chiese sottovoce.
– No, a dire il vero. E' stata una decisione presa lì per lì. Non credo di averle neanche telefonato. Mi ha detto: “venite quando volete, io devo rimanere qui. Ogni due ore devo cambiare la flebo ad Alfredo, quindi non mi posso muovere”.
Rimase in silenzio a pensare, poi con gli occhi indicò la tavola apparecchiata per tre. Io feci spallucce.
– Vi saluta Alfredo – disse la signora Orlando. Era voltata di spalle verso la teiera che cominciava a sbuffare. Rimanemmo a guardarci senza sapere cosa dire.
– Il povero Alfredo era un bravo contadino, sapete? Certo, se ci fosse stato lui vi avrebbe fatto trovare una bella cesta di frutta fresca. Io, non sono capace di coltivare alberi da frutto. Qualche pianta, sì. Ho dei gerani, delle rose, ma non frutta.
Portò la teiera a tavola e versò l'acqua calda con molta attenzione.
– Quella è la marmellata di ciliege dello scorso anno. Le ha colte lui e io ne ho fatto una splendida marmellata – sospirò e poi la sentimmo borbottare: “povero Alfredo”.
– Ne parla come se fosse morto dieci anni fa – disse Marco a un tratto. Lo uccisi con uno sguardo. Il cucchiaino mi scivolò nella tazza del tè e quello schizzò a raggio intorno alla tazza. Marco rispose con uno sguardo indifferente e continuò a bere.
– Certo, capisco cosa vuoi dire. Sapete, non parlo mai con nessuno di queste cose, ma credo che tu debba saperlo.
– Cosa? – chiese Marco. Ebbi la sensazione che quella discussione stava diventando strana. Avevo ragione.
– Sai, Alfredo è ormai morto. Non c'è più. Quello che è sdraiato sul letto è soltanto il suo corpo. La sua anima è già volata via.
Appoggiò la bocca alla tazza. Il tè le bagnò le labbra. Era ancora troppo caldo quindi rimise la tazza a posto.
– Quelli sono biscotti fatti in casa – disse aprendo la biscottiera. Ne prendemmo uno a testa pescando a caso. Erano i biscotti più buoni che avessi mai mangiato.
– Certo, grazie – rispose la signora Orlando quando glielo dissi – Sapete, sapete cosa significa empatia? E' quel sentimento che ti lega a qualcuno. E' quando non puoi fare a meno di sentire cosa pensa lui o lei, non puoi fare a meno di soffrire quando una persona che ti è cara soffre.
Prese una pausa e ci osservò per testare il nostro livello di attenzione.
– E' l'empatia che mi fa sentire Alfredo – disse con calma. Io rimasi con la tazza a mezz'aria.
– Cosa vuole dire? – chiese Marco.
– Sento che mi parla, anche se è praticamente in coma. Lui mi parla.
Rimanemmo in silenzio per un po'. Ci scambiammo un paio di occhiate. Sentivo la testa di Marco frullare come le ali di un passero. Prese a giocherellare con l'indice premendo il cucchiaino nella parte concava. Lo girava di qua e di là, roteandolo.
– E' stato suo marito a dirle che saremmo venuti? – chiese togliendo l'indice dal cucchiaino. La signora allora sorrise e si alzò da tavola. Prese le tre tazze vuote e le sistemò nel lavandino.
– Certo che no – sorrise – Sai, Marco, il povero Alfredo non può comunicare con te. Non può sapere cosa pensi. Non c'è empatia. Capito? Tra anime possono farlo invece. Non puoi comunicare con lui se non c'è un forte legame di affetto... – sorrise di nuovo. Aprì il rubinetto e la vasca del lavandino si riempì di acqua fumante. L'aria divenne ancora più pesante con il calore di quell'acqua.
– ... o un legame di sangue.
Quando mi alzai la signora Orlando aveva terminato di lavare le tazze e le stava asciugando con un panno da cucina su cui erano disegnate delle fragole.
Non so che ora fosse, ma dietro la tenda il sole era andato via già da un po' di tempo.
– Credo che sia ora di andare – dissi, sputando le parole con il soffio di un sospiro di stanchezza.
– Certo, è tardi, dovrete senz'altro preparare la cena. Se volete ho del pollo arrosto con patate, non posso mangiarlo da sola.
– Grazie signora Orlando. Dobbiamo proprio andare, grazie lo stesso.
Marco scattò in piedi meccanicamente e prese la via della porta. Fece un cenno di saluto, era quasi indifferente, forse impaurito. Io strinsi la mano della signora e lei ricambiò con un abbraccio. Pensavo che fosse pazza.

– Così sei decisa a divorziare – sussurrò Riccardo avvicinandosi. La sua pelle calda e abbronzata mi avvolse e mi strinse prendendomi di sorpresa alle spalle. Sentivo i pettorali vibrare sulla mia schiena. Il lenzuolo a cui mi avvinsi sapeva ancora di tabacco e di profumo di marca.
– Non lo vedo da due settimane, è tornato a Roma.
– Sicura che non vuoi tornare da lui? – disse affabile. Più volte mi aveva messo di fronte all’errore che avevo commesso. Mi girai di tre quarti per guardarlo negli occhi mentre mi chiedeva di tornare con mio marito.
– Non ti preoccupare, non dico niente a tua moglie – lo rassicurai, tornando ad affondare la faccia nel cuscino ancora zuppo di lacrime.
– La lascerai, vero?
Mi accarezzò i capelli sistemandoli dietro l'orecchio.
– Certo – rispose – devi avere un po' di pazienza, sistemerò ogni cosa. Voglio però che tu sia sicura di quello che fai.
– Quali cose ci sono da sistemare? Parli con tua moglie e vieni a vivere qui – dissi con voce un po' alterata.
– Non è così facile – rispose lui – non so se ho voglia di venire ad abitare qui.
– Non ti piace la campagna?
– No, è che non credo sia il caso di venire ad abitare qui. Dovremmo aspettare un po' di tempo, che le acque si calmino. La gente di questo paese fiuta i pettegolezzi da lontano. Prenderò un appartamento, una casa popolare, e mi trasferirò lì. Dovrebbero essercene di disponibili fra un po' di tempo.
– Quanto?
– Un... un mese, forse due.
Mi addormentai pensando a quelle parole: un mese, forse due, ripetendole nella mente fino a sfumare in un lungo sonno inquieto.

Il giorno dopo ero seduta a tavola e pensavo a cosa cucinare per il pranzo. Riccardo avrebbe dovuto arrivare per le dodici. Avevo poco meno di un'ora. Dieci minuti dopo presi il cellulare e lo chiamai.
– Ho una riunione – mi disse – farò tardi e non credo che mi libererò facilmente prima delle... dell'una o le due. Mangia pure, io mi faccio un panino al bar. Ci vediamo direttamente stasera.

domenica 27 giugno 2010

Laura, la storia di una bambina con problemi di udito

Capita a volte di dover affrontare un problema che per un educatore, genitore, zio o nonno, sembra difficile da spiegare perché non si conoscono gli strumenti adatti per farlo.
In questo caso possono essere di aiuto i libri educativi per la prima infanzia le cui illustrazioni e la semplicità di fruizione aiutano, se non ad affrontare, almeno a introdurre il problema.
In questo caso parlo di Laura, una bambina che ha problemi di udito: non ci sente bene, e per questo ha molte difficoltà a rapportarsi con gli amici.
Laura infatti deve spesso farsi ripetere le cose prima di capirle e per questo motivo viene presa in giro dai suoi compagni di scuola.
Fortunatamente, almeno in questo caso, il problema è risolvibile: è sufficiente un apparecchio acustico, due piccoli fagiolini introdotti nel condotto uditivo perché Laura possa decidere di sentire bene, se vuole, oppure isolarsi dai fastidiosi rumori esterni e leggere.
I testi sono dell scrittrice olandese Elfi Nijssen e i disegni, notevoli, di Eline Van Lindenhuizen.
Il libro è edito dalla Clavis.
Il sito dell'editore.

Laura
di Elfi Nijssen e Eline Van Lindenhuizen
28pp. Illustrato.
Clavis (Il Castello Group)
12,50 euro

venerdì 25 giugno 2010

Esbat

Quando ho finito di leggere Esbat la prima cosa che ho pensato è stato: prima o poi qualcuno doveva farlo. Doveva portare alla luce del giorno quel sottobosco formato dal fandom hotaku che si riunisce in forum, gruppi facebook, blog e che, oltre a discutere di anime e manga, ha voglia di appropriarsi di quel mondo riscrivendolo a proprio modo.
Il mondo delle fan fiction è molto variegato, giovane soprattutto. Questa ondata di fan-writer e hotaku in età arriva fino alla mia generazione, quella che ha visto la prima messa in onda di Goldrake su Rai 1 in quel meraviglioso pomeriggio del 4 aprile 1978 e ha vissuto l'ondata di  anime che ne è conseguito: robottoni di ogni genere (dai nagaiani Goldrake, Mazinga Z e Jeeg all'immortale Gundam di Tomino), ha visto maghette e streghe (Chappy, Bia, Sally) e molti shojo, soprattutto Lady Oscar che forse è il cartone animato più “riscritto” della rete, fino alle ultime produzioni di culto come Death Note e appunto Inuyasha, l'anime che ha dato vita a una fan fiction che poi è diventata Esbat nel momento in cui è stata scoperta da un'agenzia letteraria.
Lara Manni ha poco più di trent'anni, un blog molto attivo in cui discute di fantasy e letteratura con fan e colleghi scrittori, un canale su Anobii, un profilo Facebook e un fan club per il suo libro. È una donna (non ragazzina finalmente!) attenta alle tecnologie e avvezza al confronto pubblico, tant'è che il prototipo di Esbat (la fan fiction dedicata all'anime di Rumiko Takahashi Inuyasha) è stato discusso, criticato, modificato, e quindi inevitabilmente migliorato. Migliorato a tal punto da attirare l'attenzione di un'importante agenzia letteraria che l'ha proposto e fatto pubblicare nientemeno che per la Feltrinelli.
Ho letto questo libro conoscendo già tutta la sua genesi e questo, quindi, ha inevitabilmente modificato la  percezione che avrei potuto avere dei personaggi e dell'ambientazione. Ciò che resta, dopo la lettura, è la sensazione di aver avuto a che fare con un anime avventuroso, di aver vissuto e letto questa storia come se avessi visto compulsivamente una puntata dietro l'altra.
Quindi Esbat, oltre a essere scritto bene ed essere una buona lettura (anche se l'accostamento a David Foster Wallace è eccessivo e quello al New Italian Epic azzardato), è un fantasy originale, metanarrativo,  particolare, sicuramente poco italiano, (ma neanche tutto il filone che si rifà alla mitologia celtica lo è in fondo a meno che non si parli di med-fantasy e in questo caso ci sono punti di intersezione evidenti), e rappresenta quel mondo del fandom che andava in qualche modo ufficializzato con una vera pubblicazione prima che questo inevitabilmente, in relazione alla future evoluzioni della vita digitale sul web, si trasformi o scompaia.

Esbat
di Lara Manni
Feltrinelli Editore
16,50 euro

Blog dell'autrice:
http://laramanni.wordpress.com/

Recensioni:
http://www.carmillaonline.com/archives/2009/09/003193.html
Esbat e la nuova epica italiana

mercoledì 23 giugno 2010

L'ultima stagione, parte 3 di 5

Convergenza
Quella in cui si svegliò Marco la mattina seguente non era proprio la casa dei suoi sogni, ma era una casa. Se apriva la finestra della camera da letto vedeva la collina dove era cresciuto e in cima a essa l'abitazione che tante volte era stata testimone delle sue bravate. Le mura adesso erano gialle. Quando le vide per la prima volta dopo essersi trasferito, aveva dieci anni allora, disse a sua madre: “Quando i cinesi vomitano la fanno di quel colore”. Le tegole, la cui tonalità di marrone rendeva meno austero il maggese appena arato alle sue spalle, aveva un impersonale aspetto da casa nuova, mai vissuta, asettica come un arredamento componibile dell'Ikea, dove non è facile distinguere il frigo-bar dal cesso.
Era a pochi metri, forse cinquanta, e non era più sua. Non si sarebbe più arrampicato sul tetto del forno, non avrebbe nascosto i giocattoli dentro l'armadio degli attrezzi del padre. Comprarla non era stato possibile. Lui era l'ignavo e la casa era il vessillo inarrivabile.
– Com'è il tuo appartamento? L'EUR è una zona tranquilla, o no? – gli chiese Laura quella sera al pub. Marco strinse le labbra e le bagnò assaporando le ultime gocce di Martini rimaste a ricordo del sapore, come se volessero indurlo a prenderne un altro. Infatti ne ordinò uno doppio con ghiaccio.
– Ha quattro mura, un tetto, qualche inutile parete interna. La cosa che mi piace di più di quell'appartamento è la foto che ho appeso all'ingresso. Avevo sei anni lì, lo sguardo attento alle novità. Vicino a me c'era Alf, il cane che avevo trovato dentro uno scatolone fuori dalla scuola.
Non era riuscito a comprare la sua vecchia casa dai coniugi Orlando (quella in cui era cresciuto lui), ma era soddisfatto lo stesso. Perlomeno poteva vederla ogni mattina: gli bastava aprire la finestra ed era lì ad aspettarlo con quel giallo sempre più sbiadito dal tempo.
Sì vestì e scese al piano terra dove Laura aveva preparato un'abbondante colazione. Sul tavolo trovò una caraffa di latte caldo, una caffettiera per due colma fino al becco, metà per il caffellatte l'altra da bere durante il lavoro, un vassoio con confetture e fette biscottate già spalmate di burro.
Un bigliettino lasciato vicino alla tazza del latte recitava: “Scusa se non te l'ho detto, sono uscita per fare un giro in paese. Voglio cercare un lavoro”.
Rimase sorpreso per il tempo che gli fu necessario per terminare il caffellatte. Accartocciò il foglio con una mano e lo gettò in un angolo del tavolo. Non era vestito, né pettinato. Si aggirava in mutande per casa stropicciandosi gli occhi e tentando di appiattire i capelli.
– Un lavoro – ripeté tra sé – Vado a cercare un lavoro.
Prese una valigia dall'armadio e l'aprì. Ne venne fuori un computer portatile alto due dita dall'aspetto fragile. Lo aprì e lo accese. Dopo qualche bip di attesa si ricordò che per leggere le email di lavoro che si aspettava aveva bisogno di una buona connessione.
In quell’angolo di campagna la tecnologia sembrava qualcosa di lontano e incongruo; avere una connessione ADSL veloce non era l’aspirazione di nessuno da quelle parti.
Cliccò un paio di volte al centro del portatile, strisciò l'indice verso destra, poi verso sinistra. Un colpo breve con il polpastrello.
Imprecò e decise di chiamare la compagnia telefonica.

Dalla parte di Marco
Laura tornò mezz'ora dopo carica di buste della spesa.
– Ti ho fatto un regalo.
Ero seduto sul divano e mi guardavo intorno senza sapere cosa fare. Laura si avvicinò canticchiando il motivo di Nove settimane e mezzo e senza dire altro alzò le spalline del vestito lasciandole scivolare sugli avambracci. Poi ancora più giù e il corpo si scopriva lentamente sotto il mio sguardo; rimasi a fissarla mentre si spogliava, foglia dopo foglia,come una cipolla da sacrificare per il soffritto. Era rimasta con un bustino rosso e nero che sosteneva con orgoglio il seno e un tanga che si perdeva tra le natiche incollate dall'umidità. Finito lo striptease ero ancora lì a guardarmi intorno senza sapere cosa fare. Infine afferrai la cornetta in mano e composi un numero di tre cifre.
– Lascia stare il lavoro per adesso – disse Laura seccata. – Non puoi rimandare?
– Devono ancora attivarmi quella maledetta ADSL! – urlai io brandendo il cordless. Non mi resi conti di aver alzato la voce. Laura arretrò e corrucciò lo sguardo come una bambina indispettita. Non mi aveva mai visto così arrabbiato. Forse non mi aveva mai visto arrabbiato e basta.
– Vado a letto, ci vediamo lì – disse infine.
– Aspettami sveglia – risposi una volta tornato calmo.
La raggiunsi qualche minuto dopo. Laura era a letto e teneva a fatica gli occhi aperti. Vedendomi entrare rantolò qualcosa come “Era ora, vieni qui”. Aveva il lenzuolo tirato giù a scoprirle le cosce e un sedere che col tempo stava levitando come una pagnotta di pane. Quando qualche minuto dopo ci fu l'orgasmo lei non era ancora del tutto sveglia. Sbuffò indispettita, ma alla fine decise di sorridere.
– Non ti preoccupare – disse.
Aprii il cassetto e vi cercai delle liquirizie. Non so perché, ma dopo aver fatto sesso ho sempre la bocca un po' amara. Potrebbe essere un problema di fegato, ma non capisco cosa c'entri col sesso. Mi voltai verso di lei e la vidi alla luce dell' abat-jour. Notai dei nuovi solchi attorno agli occhi; le rughe le attraversavano la fronte come quelle onde sinusoidali che studiavo a scuola. Le mani erano delicatamente chiuse all'altezza del seno, bianche e lisce, dita affusolate come rami di salice.
– Fa niente, magari è la volta buona – disse Laura voltandosi dall'altra parte. Si addormentò pensando ai test di gravidanza che aveva impilato nell'armadietto del bagno.
Laura è una donna che ha trascorso la vita a sognare e crede ancora che esista il principe azzurro, pensai. Masticai la liquirizia rumorosamente come se inconsciamente volessi cancellare quei pensieri con il rumore che produceva. Essere il principe azzurro di qualcuno è una grossa responsabilità e non ero pronto per assumerla. Ero improvvisamente tornato ai miei cinque anni, quando succhiavo il ghiacciolo con tutta la forza che potevo per assaggiare fino in fondo il sapore di limone o coca cola.
Tre giorni dopo il telefono squillò e risposi prontamente. Fumavo la prima sigaretta dopo dieci anni e non ero più abituato ad averne una in bocca. Ciccai dentro la barchetta di carta che avevo costruito in attesa che la voce preregistrata terminasse il messaggio. La cornetta urtò contro la sigaretta e si spense; il mozzicone incandescente cadde sul mio piede nudo. Imprecai strofinando il collo del piede sul polpaccio.
Laura entrò in sala arrabbiata, mani ai fianchi come una matrona di altri tempi.
– Adesso ci mettiamo anche a bestemmiare? – mi urlò contro.
– Scusami, e che i clienti sono un po' arrabbiati – risposi io. – Oggi posso finalmente lavorare : dovrebbero aver attivato l'ADSL a quanto dicono. Proverò più tardi.
Mi concessi una pausa e riempii un bicchiere di Martini bianco dove annegai due cubetti di ghiaccio. Mi stesi sulla poltrona. Laura si era messa ad annaffiare i fiori sul balcone. Era in tuta. Trovavo particolarmente sexy la mia donna in tuta. Finito il Martini bianco decisi di dedicarmi a lei.
– I vicini, potrebbero vederci – disse. Aveva una brocca in mano, semivuota, e i pantaloni della tuta a metà coscia.
– E chi se ne frega – risposi. – Lo vuoi o no un figlio?

La sdraia matrimoniale era una delle sue strambe idee. La piazzammo sul balcone, accanto al tavolo di plastica dove mi fermavo spesso a bere e vedere la mia vecchia casa dipinta con un gialloche mi ricordava il catarro di un vecchio.
Ci sdraiammo per riprendere fiato. Stava durando parecchio stavolta. Laura era una donna piuttosto inibita. Aveva soltanto bisogno di lasciarsi andare. Quando le sussurrai: “di' la verità, speri che ci vedano, vero? “, si sedette sopra di me prendendomi alla sprovvista. Non ebbi il tempo di dire nulla. Gemette rumorosamente e si lasciò andare in un orgasmo liberatorio.
Il caldo ci aveva procurato una patina di appiccicume addosso. Avevamo entrambi bisogno di una doccia ed entrambi aspettavamo che la pistola tornasse carica per farla insieme. Presi un'altra Camel e la accesi. Laura tossì e storse la bocca infastidita non tanto dal fumo, ma dal mio nuovo vizio.
– Hai deciso di morire così?
– Figurati – dissi io. – Mio nonno ha fumato un pacchetto di sigarette fino al giorno della sua morte, a novantadue anni.
– Vallo a dire alla signora Orlando.
– Il fumo non le arriva da qui – risposi io tornando a osservare il giallo–vomito della casa che una volta era mia.
– Suo marito ha il cancro ai polmoni – aggiunse con rassegnazione. – Dice che fumava molto. Ha smesso dopo che i medici glielo hanno diagnosticato.
Rimasi con la sigaretta a mezz'aria e fissavo il fumo che saliva dritto come lo spago di un palloncino.
– Capita – dissi. Spensi la sigaretta con violenza sul posacenere e aggiunsi:
– Quindi è malato gravemente.
– Hai sentito cosa ho detto? Pochi mesi.
– Non hanno figli, vero?
– Non ne hanno.
– Lei sta bene?
– E' provata, sai, suo marito ha pochi mesi...
– No, dico, lei sta bene fisicamente?
– Credo di sì. Che c'entra?
– Nulla – risposi. – Mi chiedevo se dopo la morte di suo marito continuerà a vivere lì.
– Tornerà a vivere a Roma – rispose Laura. – Non ha la patente e non potrebbe neanche andare a fare la spesa.
Lo disse con tono asciutto. Aveva capito dove volevo arrivare.
Mi pentii di aver spento la sigaretta così ne accesi un'altra. La fumai fino in fondo, soddisfatto.
– Credo che dovremmo stringere amicizia con gli Orlando.

I miei clienti intanto chiedevano notizie sull’andamento dei progetti. Dovetti inventare le solite scuse che si dicono sempre in questi casi: nuovi aggiornamenti tecnologici che avrebbero reso il software più sicuro e stabile. Aggiunta di nuove funzioni che aiutano l'interattività. Funzioni di controllo e sicurezza molto importanti. Funzioni ovviamente nascoste a tutti e che poi, in realtà, neanche esistevano.
Quella notte mi svegliai alle tre e le cicale frignavano come lattanti in cerca della mammella.
– Cazzo! – esclamai. Mi ritrovai a sedere sul letto. Mi alzai così in fretta che la testa prese a girare vorticosamente. Due metri in là vidi la bottiglia del Martini vuota e il bicchiere rovesciato. All'interno dovevo aver messo le bucce delle noccioline evidentemente perché dove il bicchiere era rovesciato c'era un cumulo di bucce. Mi ero ubriacato con il Martini, con tutta probabilità. Ce ne vuole per ubriacarsi con il Martini. Eppure la testa girava e sudavo freddo nonostante fosse agosto. Dovetti sdraiarmi di nuovo. Nel frattempo Laura si era svegliata e si era avvicinata a me. Aveva acceso la luce e contava le perle di sudore sulla mia fronte.
– Che è successo?
– Quel sogno, ancora.
– Dovresti rilassarti – sospirò lei. – Datti una tregua.
Tentai di rimettermi seduto. Ancora conati di vomito e sudore freddo. Tornai ad affondare la testa nel cuscino.
– Roba da film cyberpunk. Ero di fronte al computer e lavoravo. Quello a un certo punto si pianta e io stramazzo al suolo. Come se la mia vita dipendesse da lui.
Laura rimase ad ascoltarmi seria. Prendeva sul serio ogni cosa che le dicevo. Se le confessassi di essere stato rapito dagli alieni, mi crederebbe senza esitare.
– Un sogno ricorrente – disse a un certo punto.
– Era differente dagli altri. La volta scorsa si era soltanto disconnesso. Era caduta la linea, non si era piantato. Non appena era comparso l'avviso sul monitor ho perso tutta la volontà di vivere. Allora ho cominciato a piangere e urlare. Ero disperato. Penso che se non mi fossi svegliato mi sarei suicidato, nel sogno dico.
Mi asciugò la fronte accarezzandola con le dita. Asciugò le perle di sudore sulla mia fronte una ad una con un bacio.
– Non ti preoccupare. Sei soltanto stressato.
Mi alzai in piedi. Trattenni il respiro per vedere se ancora mi veniva da vomitare. Mi infilai le ciabatte. Ci ripensai e le sfilai lanciandole addosso al muro. Arrivai fino alla porta e dissi:
– Devo controllare se funziona tutto bene.
Erano le tre di notte e i merli si rincorrevano nel buio. Facevano un baccano della madonna. Mi tennero compagnia fino alle sette quando il turno di notte diede il cambio a quello diurno e i passeri si affollarono tra i rami dei due ciliegi che si affacciavano dalla finestra della sala.
Io ero sempre al mio posto, di fronte allo schermo del mio computer e fissavo la nuvolette che nell'angolo destro indicava la velocità di connessione. 33 kbps.
– Cristo! Neanche nel terzo mondo sono così lenti.

– Sei tornato a dormire o sei rimasto sveglio tutta la notte? – disse Laura entrando.
Passai una mano sulla faccia e mi stropicciai gli occhi. Alzandomi mi stiracchiai sonoramente: scricchiolavo come un ramo carico di neve.
– Secondo te perché dicono che fanno assistenza ventiquattro ore al giorno se poi non è vero?
– Sei stato sveglio tutta la notte – disse Laura sospirando. Aveva una voce fine e infantile: non era ancora del tutto sveglia. Per tutto conto le risposi con uno sguardo incazzato e mi allontanai verso la cucina. Versai un bicchiere di latte e presi un cornetto da una confezione trasparente e sporca della glassa di zucchero dei cornetti stessi. Assaggiai un boccone che rimase impastato nella bocca. Lo mandai giù a fatica insieme a un sorso di latte.
– Fanno schifo – dissi. – Fa tutto schifo, pure il latte. Non è fresco!
– Non posso andare a fare la spesa tutti i giorni – rispose Laura.
– Allora compra qualcos'altro.
– Come vuoi – rispose lei. Forse mi stava solo assecondando. Uscì dalla sala e andò in bagno a farsi una doccia. Sentivo l'acqua tiepida scorrere sulla sua pelle. Mi feci venire in mente l'idea di raggiungerla e scoparla sotto la doccia; poi pensai che ero troppo stanco e anche troppo incazzato.
– Dopo esco – disse dalla doccia. – Se devo prendere qualcosa dimmelo subito.
– Non ti preoccupare – risposi. Nel frattempo cliccavo senza rendermene conto sulla nuvoletta come se potessi cambiare quel numero a suon di click.
– Casomai ti raggiungo dopo in paese. Non posso lavorare neanche oggi.
Lo scroscio dell'acqua terminò. Dieci minuti dopo Laura tornò da me. Sembrava vestita a festa con quell'abito corto a fiorellini. Il push up le evidenziava il seno e il trucco riprendeva il colore magenta dei merletti della gonna.
– Vado a fare un colloquio, non puoi venire – sorrise.
– Pensavo che andassi a cercarti un nuovo marito – dissi io. Il sorriso si arrestò subitaneamente. Stava tentando di rimanere calma.
– Senti, sono nervosa anche io, non ti ci mettere pure tu.
– E' che... l'idea che lavori mi da' fastidio – dissi.
Laura spalancò gli occhi, mi guardava stupefatta, come se mi vedesse per la prima volta dopo tanto tempo.
– Non ti facevo così maschilista.
Era di fronte a me che cercava una valida giustificazione per ciò che avevo appena detto senza rendermene conto. Presi tempo respirando rumorosamente.
– E' che ti voglio tutta per me – dissi alla fine. La fissai e notai ancora una volta che mi piaceva molto: era sensuale. Lei se ne accorse e si avvicinò, mi prese le mani e le pose sui fianchi. Io rimasi a fissare l'ombelico. Era piccolo e arrotolato su sé stesso come una ciliegia secca. Gli diedi un bacio.
– Ti va? – chiese Laura.
– Cosa? – chiesi io di rimando.
– Ti va… be' dai…
– No, scusa, giornataccia, non posso lavorare e sono un po’... un po’ nervoso, ecco.
– Rilassati, è il mio periodo fertile e…
– Cristo Laura, non pensi ad altro! Non vedi che non posso lavorare?
Mi alzai di scatto dalla sedia girevole. A lato del computer c'era una bottiglia di Vodka alla mela ed era già a metà. Finii quello che era rimasto nel bicchiere; lo riempii e lo svuotai di nuovo. Rimasi a fissare il bicchiere vuoto e i due cubetti di ghiaccio al suo interno ancora integri che rotolavano come dadi. Di sottecchi vidi la sua faccia cambiare espressione come se fosse renderizzata da un algoritmo di morphing. Da Laura Biagio a Linda Blair in appena cinque secondi netti. E aveva pure le sue stesse iniziali.
– Mi stai trascurando – borbottò Linda Blair parlando in latino al contrario.
– Sono stanco. Trovati qualcosa da fare!
– Ci ho già pensato, te l'ho detto. Ho un colloquio di lavoro. Riccardo mi aspetta alle nove nel suo ufficio.
– Riccardo? – Urlai e senza rendermene conto spensi tutti i grilli accesi da Alberto Lupo trent’anni prima. Riposi la vodka e afferrai la bottiglia di Martini per versarmene due o tre dita.
– Il sindaco, l’ho conosciuto al funerale di tua madre e gli ho chiesto un lavoro.
– Hai chiesto un lavoro a quel porco che ha costretto una ragazzina di quindici anni ad abortire per continuare la carriera politica? Fai pure e porta i fiori a mia madre “permericcardoècomeunsecondofiglio” se passi al cimitero.
Fece un cenno di disprezzo con la testa e se ne andò senza dire nulla. Al ritorno era sorridente, come se non fosse successo niente. Aveva ottenuto il lavoro ed era contenta. Lei.

lunedì 21 giugno 2010

Finalisti del Carnagie Medal

Per questa notizia ringrazio la mia amica Hadrill del forum del Parnaso Ambulante.

Tra i finalisti del Carnegie Medal, il prestigioso premio letterario dedicato alla letteratura per l'infanzia, troviamo il romanzo Il Figlio del Cimitero (premio Hugo 2009), di Neil Gaiman, e The Nation, romanzo (inedito in Italia) di Terry Prachett.
Uno scontro al vertice tutto made in UK tra due autori che si sono trovati spesso a contendere per un riconoscimento.










Questa la lista dei finalisti:


Il verdetto sarà emesso il 24 giugno.

sabato 19 giugno 2010

Su José Saramago

Riguardo José Saramago devo dire che mi dispiace di non aver ancora terminato tutta la sua opera, ma se avete letto qualcosa capirete che per farlo ci vuole impegno.

Di belle recensioni ne troverete molte su web. Voglio approfittare di questo post dedicato alla memoria del grande scrittore portoghese per ribadire le ultime questioni editoriali avvenute in Italia. Il libro Il quaderno, composto da una serie di articoli tratti dal suo blog, è stato rifiutato dall'Einaudi a causa dei contenuti esplicitamente anti-berlusconiani che esprimeva. Ho trovato in rete qualche brano che riporto qui:

Il sentimento degli italiani per il Cavaliere, continua Saramago nel brano incriminato, «è indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale». E ancora: «Nella terra della mafia e della camorra che importanza può avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?». E via così, compreso il paragone finale - rivela ancora il settimanale (NDR: L'Espresso) - tra Berlusconi e «un capo mafioso». 

Il Gruppo Mondadori ha difeso la propria indipendenza intellettuale (cosa avvenuta anche in occasione delle critiche rivolte da Silvio Berlusconi a Roberto Saviano recentemente passato in Mondadori appunto) affermando che quel diario conteneva accuse troppo esplicite e pesanti. Altri hanno invece gridato alla censura mediatica, l'ennesima.

La Feltrinelli ha deciso di non pubblicare "gli scarti della Einaudi" così questo diario è stato pubblicato da una piccolissima casa editrice: la Bollati Borlinghieri.
Dopo questa vicenda Saramago ha revocato all'Einaudi la possibilità di ristampare i suoi romanzi così adesso tutti i suoi libri sono in catalogo presso la Feltrinelli. Compreso Caino, il suo ultimo, ultimissimo romanzo di cui incollo di seguito la sinossi:

Da IBS:
A vent'anni dal "Vangelo secondo Gesù Cristo", José Saramago torna a occuparsi di religione. Se in passato il premio Nobel portoghese ci aveva dato la sua versione del Nuovo Testamento, ora si cimenta con l'Antico. E sceglie il personaggio più negativo, la personificazione biblica del male, colui che uccide suo fratello: Caino. Capovolgendo la prospettiva tradizionale, Saramago ne fa un essere umano né migliore né peggiore degli altri. Il dio che viene fuori dalla narrazione è un dio malvagio, ingiusto e invidioso, che non sa veramente quello che vuole e soprattutto non ama gli uomini. È un dio che rifiuta, apparentemente solo per capriccio e indifferenza l'offerta di Caino, provocando così l'assassinio di Abele. Il destino di Caino è quello di un picaro che viaggia a cavallo di una mula attraverso lo spazio e il tempo, in una landa desolata agli albori dell'umanità. Ora da protagonista, ora da semplice spettatore, questo avventuriero un po' mascalzone attraversa tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica: la cacciata dall'Eden, le avventure con l'insaziabile Lilith, il sacrificio di Isacco, la costruzione della Torre di Babele, la distruzione di Sodoma, l'episodio del vitello d'oro, le prove inflitte a Giobbe, e infine la vicenda dell'arca di Noè. Riscrittura ironica e personale della Bibbia, invenzione letteraria di uno scrittore nel pieno della maturità, compone un'allegoria che mette in scena l'assurdo di un dio che appare più crudele del peggiore degli uomini.

Caino
Di José Saramago
Feltrinelli editore
15 euro

venerdì 18 giugno 2010

Una segnalazione in più non guasta mai

Il precedente articolo è stato selezionato da Paperblog come post del giorno. Un po' di pubblicità non guasta mai. E neanche un po' di autocompiacimento. Ogni tanto però.
http://it.paperblog.com/

Sconto del 30% su tutti i post

Sembra che stavolta il vento non soffi contro le piccole librerie indipendenti. A quanto pare è in approvazione una legge che impedirà, soprattutto alle grandi catene che possono permetterselo, sconti superiori al 20%.
Questo riguarda anche le librerie online? Non lo so, ma è probabile. Quindi noi feroci consumatori di libri, siamo pochi a dir la verità, possiamo già dire addio ai tanto ricercati "30% di sconto" e forse anche all'ormai imprescindibile, per me, 3x2 che vedete sopra rappresentato dal banner di Bol.it (che fa parte del gruppo Mondadori per la cronaca). Un 3x2 super partes però, che comprende anche titoli di piccole case editrici che a volte non riescono a contenere i costi di produzione e sono costretti a vendere i loro libri a più di venti euro.

Ammetto di avere un rapporto poco empatico con i piccoli librai, ma questo dipende dal fatto che con i piccoli librai non ci ho mai avuto a che fare. Nella mia provincia le piccole librerie, quelle poche che sono nate, hanno avuto vita breve. Adesso che i flussi economici girano in maniera diversa e la mia zona sta per essere riqualificata, nascono direttamente grandi librerie tipo Mondadori o Giunti.

Non voglio impegolarmi in discorsi che non sono in grado di approfondire, ma IMHO (In My Humble Opinion) se il mercato porta i lettori a comprare best-seller nelle grandi librerie e nei supermercati allora il problema sta nella diversificazione della proposta. In poche parole: i piccoli librai dovrebbero vendere quello che non si trova nei supermercati, ovvero i libri poco distribuiti o distribuiti per niente. Vedere un piccolo libraio che mette in bella mostra la locandina dell'ultimo libro di Stephanie Meyer è una mortificazione alla categoria e al presunto ruolo culturale che queste piccole identità dovrebbero avere. A questo punto se nessuno compra i libri delle piccole case editrici è chiaro che il problema è culturale, e questo è sì un problema difficile da risolvere, ma non impossibile. Se il libro del signor Sconosciuto della Pinco Pallino Editore è bello credo che sia un dovere delle nostre istituzioni aiutare i librai e le piccole case editrici a valorizzarlo e renderlo famoso come un qualsiasi Acciaio finalista al più importante premio letterario nazionale.

Domande che non avranno risposta:
Perché i libri costano sempre di più? Perché quegli stessi libri vengono venduti con forti sconti su alcuni siti o addirittura vengono svenduti nei mercatini dell'usato dopo poco tempo dall'uscita? Qual è il loro effettivo prezzo di mercato? Cosa pensano  i consumatori-lettori della legge che regola gli sconti? Perché nessun portale che parla di libri o editoria ha mai cercato di vedere questa faccenda dal loro punto di vista?

mercoledì 16 giugno 2010

L'ultima stagione, parte 2 di 5

Dalla parte di Marco
Tre mesi e una settimana dopo, in una assolata mattina di novembre, ci sposammo. Conoscere Laura è tra le cinque cose migliori che mi siano capitate. La prima? Il mio lavoro. Assolutamente. Può sembrare cinico dirlo e forse anche offensivo, ma il lavoro va prima di tutto; è quello che mi dà da mangiare, che mi fa pagare le bollette del telefono, che mi permette di andare ogni anno in vacanza per l'intero agosto, e ogni volta in un luogo diverso di questo pazzo pazzo mondo. Ed è grazie a esso che io sono io, cioè, senza questo lavoro sarei senz'altro un'altra persona, una persona diversa, come ero diverso quando lavoravo nell'officina di mio padre. Sono passati vent'anni da allora ma a me sembrano passate una o due reincarnazioni. Potreste benissimo dire: “Sei maturato, per questo motivo ti senti diverso”. Non è il fatto della maturazione che mi ha cambiato, ma il mio lavoro. Scegliere questo lavoro è stata la prima decisione importante che ho preso in vita mia e ne vado fiero.
Lo decisi il pomeriggio in cui vidi mio padre accasciato per terra con una mano stretta sul petto e l'altra che penzolava come un ramo spezzato. Lo vidi dischiudere quel pugno che i miei occhi avevano visto tante volte da vicino e lasciare la chiave del quattordici cadere per terra, rimbalzare ed emettere quel tintinnio che a lui dava fastidio. “Non far più cadere quell'attrezzo, imbecille” urlava sempre quando una di quelle chiavi mi scivolava tra le mani “Oppure ti ammazzo di botte”. E poi c'erano quegli occhi vitrei che al buio dell'officina avevano lo stesso colore della tuta. Mi fissavano con insistenza per chiedere aiuto. Io, a pochi passi, rimasi immobile. Vedevo mio padre accasciarsi, grande e grosso com'era, raggomitolarsi su sé stesso come un enorme grumo di carne umana. Sempre più piccolo e impotente.
Pensai subito che era un infarto. Cos'altro poteva essere? Un uomo che si tiene il petto come se il tutto il male che aveva dentro non trovava più spazio, e premeva per uscire e inondare il resto del mondo. Sì, è un infarto pensai, cos'altro poteva essere?
Corsi verso il telefono, nell'angolo dell'officina dove mio padre aveva allestito uno studiolo, formato da pareti di plexiglas, che utilizzava per tenere la contabilità. Entrai e mi diressi verso la scrivania. Trovai l'agenda degli appuntamenti e delle scadenze , un block notes dove aveva segnato alcuni numeri di telefono e sui cui aveva disegnato delle isole con palme e delfini e un registro delle fatture nuovo. Sommerso da fogli di carta e quaderni trovai il telefono. Era un vecchio telefono a disco, grigio perla. Rimasi a guardare il disco dei numeri. Mi voltai verso mio padre allungando le mani a palmo aperto e attraverso la parete trasparente dissi:
– Non posso... sono... sporche...
Non rispose. Ansimava e stringeva con forza la tuta da lavoro all'altezza del petto. Gli occhi mi guardavano accigliati come se volessero punirmi ancora una volta.
– Non posso – ripetei.
Decisi di fare di testa mia. La prima cosa che passa per la testa di un bambino di otto anni era di chiedere aiuto. Quindi uscii e corsi verso l'abitazione di mia zia, la zia Amanda, prima delle tre sorelle di mio padre. E' morta anche lei qualche anno fa, ma di un'altra malattia. Attraversai il vigneto, la raggiunsi nel pollaio dove stava per sgozzare una vecchia gallina e le dissi cosa era successo. Lasciò andare la gallina e il coltello e si allungò verso di me. Era grossa come la guardina del forte che avevo costruito per i miei soldatini di plastica. Lo sguardo accigliato e mascolino era identico a quello di mio padre, la muscolatura e i peli delle braccia pure.
– Non hai chiamato il pronto soccorso? – chiese lei. Balbettai che non potevo farlo e mostrai le mani segnate dalle vergate sferzate con la fibbia della cintura. Lei non capì subito. Ci misi un paio di minuti per dire che se avessi toccato il telefono con le mani sporche mio padre non avrebbe esitato a sfilarsi la cintura e darmele. Mia zia scosse la testa poi dettò l'indirizzo dell'officina a un operatore del pronto soccorso.
Quando tornammo in officina mio padre non mi guardava più. Non guardava più nessuno. Era a terra, a pancia in giù, col naso arrossito dai capillari ingrossati, schiacciato per terra come un pomodoro secco.
Quel giorno salvai la vita a una gallina e sacrificai quella di mio padre. Credo che nel cambio il mondo ci abbia guadagnato, tutto sommato.
La sera stessa, dopo la veglia funebre, sentii mia madre dire che da soli non saremmo mai stati in grado di portare avanti quell'officina. Aveva ragione. Dopo la morte di mio padre la metà dei nostri clienti non si fece più vedere. Era lui il genio dei motori, non io né tanto meno mia madre che si preoccupava soltanto di lavare le tute da lavoro a me, mio padre e ai due meccanici che aveva assunto. Aspettai quei dieci anni che mi separavano dalla maggiore età per venderla. Con quei soldi, quattro anni dopo, ho aperto l'agenzia di servizi informatici in cui lavoro ancora adesso. Il capo ero io, finalmente. Non prendevo ordini da nessuno. Li davo, e questo per me era un traguardo.
Decisi di dire a mia madre che mi sarei sposato. Era venerdì, era il giorno sbagliato lo sapevo, ma era l'ultimo giorno disponibile. Laura stava lavorando e piuttosto che rovinarmi anche la serata e aspettare che ci fosse anche lei, decisi di andarci da solo dopo pranzo. Mia madre stava seduta di fronte al televisore a un palmo dallo schermo. Rattrappita sulla sedia che aveva impagliato il mese precedente. Anche da lì, ne ero sicuro, non distingueva ciò che stava vedendo e non riusciva a distinguere la Carrà con la De Filippi.
– Io e Laura... te la ricordi Laura vero? Beh, io e Laura ci sposiamo domani. Dovresti cercare un vestito buono per la cerimonia, qualcosa di carino. Se vuoi ti accompagno a comprare qualcosa, sennò fa niente, mettiti quello che metti la domenica quando vai a messa.
– La Carrà s’è fatta brutta, la vedi quanto ride male? Sembra poro zi’ Mario colla parucca bionda.
Fu l’ultima cosa che sentii dire dalla vecchia. La sera stessa io e Laura andammo a controllare che avesse capito cosa doveva fare, che poi non era altro che stirare un bell'abito da cerimonia e preparare le buste di plastica per metterci gli avanzi per i sette cani che governava. La trovammo sdraiata sul letto ancora vestita. Pignola com'è, pensai, non si addormenterebbe mai vestita e soprattutto non avrebbe mai dimenticato di infilare la dentiera nel bicchiere. La scossi per svegliarla: “Mamma! Mamma!”, sussurrai. Le presi il braccio, esile come il manico di una racchetta da tennis e lo lasciai ricadere sul letto.
– Il matrimonio è rimandato – dissi rivolgendomi serio verso Laura. Lei invece, che era più sveglia di me, stava già lacrimando. Lacrimava per una donna che non aveva mai visto in vita sua.
Riccardo Murzio era il sindaco del mio vecchio paese e conosceva la sora Checca sin da piccolo. Rimandò senza battere ciglio il matrimonio. Durante il funerale non fece altro che parlarmi di quanto fosse stata generosa con i bambini del quartiere e di come l’avesse spronato ad aspirare a qualcosa di più che un lavoro da contadino.
– Io invece dovevo soltanto dare le chiavi giuste e i cacciaviti a mio padre – gli dissi – e se non lo facevo mio padre mi menava, e mia madre ci metteva il carico.
– Non ti preoccupare per i manifesti – disse lui – li metto a carico del comune – Mi cinse col suo lungo braccio intorno al collo e con la mano strinse la spalla. Era di una testa più alto di me. Aveva il fisico asciutto. Non faceva sport, ma non esagerava col mangiare. Produceva a ritmo serrato la stessa risata posticcia di quando andavamo alle superiori e che gli procurava molte donne e anche molti schiaffi.
– Come è finita quella storia della ragazzina? – gli dissi all'improvviso. Il suo braccio scivolò via verso la schiena dove assestò due pacche decise.
– Bene, bene – disse soltanto. Lo vidi andare via senza aggiungere altro. Quando stava per salire in auto si girò facendo tintinnare i bracciali d'oro, indossò di nuovo il sorriso posticcio e disse:
– Ci vediamo direttamente in comune.
Ci sposammo la settimana seguente alla presenza dei soli testimoni. Sara e Marta, rispettivamente sorella e amica del cuore di Laura, se ne stavano composte alla destra della sposa. Sara somigliava molto a Laura, aveva gli occhi castani e verdi di una loro nonna che vidi ritratta in un loculo del cimitero quando, dopo la sepoltura della sora Checca, Laura decise di presentarmi almeno i parenti morti dato che evitavo con pervicacia di conoscere quelli vivi. Aveva la stessa tonalità di rosa sul volto e le stesse piccole fragole rosse all'altezza degli zigomi, come se fosse perennemente imbarazzata di avere un fascino che forse pensava di non meritare. Le labbra formavano il sorriso spento di chi non aveva più molto da chiedere dalla vita. Le due taglie in più di reggiseno, sorrette da un push up color carne che traspariva dalla camicia bianca, per un attimo mi fecero pensare di aver sposato la sorella sbagliata. Marta invece era grassa e sembrava non lavarsi i capelli da un mese. Si vedeva che aveva scelto con cura quel vestito rosso corallo che le lasciava scoperti soltanto due polpacci a forma di prosciutto. Mostrava la sua quinta misura con orgoglio. Mi accorsi che se qualcuno diceva qualcosa di storto cambiava umore a velocità fulminea, e i suoi occhi diventavano delle fessure grandi quanto il pertugio di un salvadanaio. Poi si impettiva, come se volesse minacciare chi aveva di fronte a sé con quelle enormi protuberanze mammarie.
Mattia e Marika erano i miei testimoni. Mattia lavorava per me da dieci anni e lo consideravo un fratello minore. Marika, sua moglie, la vedevo poco e quando potevo la evitavo per non subire i miei stessi sensi di colpa. Sapevo che Mattia la tradiva da anni e mai per più di un mese con la stessa donna. Quando la vidi le sorrisi ingenuamente mentre Riccardo, il sindaco, pronunciava in gran fretta la formula. Io e Laura rispondemmo “sì” a turno . Firmammo il documento del matrimonio e contemporaneamente il cambio di residenza. Finalmente potevano iniziare la nostra vita insieme.
Ci trasferimmo la sera stessa e congedati i testimoni festeggiammo esplorando la villa in ogni angolo. Non potete immaginare in quanti posti si possa fare sesso, se volete. Mica intendo scrivania, lavatrice o tavolino della cucina; pensate a uno sgabuzzino con scope e stracci da spolvero. Pensate a un aspirapolvere elettrico molto potente compreso di accessori di ogni forma studiati per arrivare in ogni angolo del vostro salotto. Pensate a cosa potreste fare nel buio con tutta quella roba appesa al muro, poggiata dietro a un poster di J.F.K, l'uomo più affascinante del mondo, almeno così diceva Laura. Pensate a come possa essere satura di armonici la voce di una donna in uno spazio così ristretto, costretta a urlare e gemere e allo stesso tempo disperarsi di non avere più spazio ed essere priva inoltre di quel poco di luce che le basterebbe per vedere il mio corpo muoversi convulsamente per lei.
Mezz'ora dopo si accasciò per terra, esausta. Nel buio la sentii sorridere, poi disse con un vago tono malinconico:
– Non vedo l’ora di avere un figlio.
– Ne avremo quanti ne vuoi – risposi io, poco più su, con una mano appoggiata sulla parete dello sgabuzzino e l'altra sulla fronte.
– Domani compro i test – disse lei – E' da quando mi hai chiesto di sposarti che passo davanti alla farmacia e sogno il momento in cui entro per chiedere dei test di gravidanza.
– Lo so.
– So già cosa dirò: salve, vorrei dei test di gravidanza, che siano buoni e affidabili. Non mi importa del prezzo. E lei, la farmacista, La dottoressa Alessandra Satta di quindici anni più giovane, mi da un'occhiata di sfuggita e si accorge che la sua vita non così è perfetta come pensava che fosse. Allora il cartellino col nome appeso al petto traballa e lo sistema con una mano mentre con l'altra, perfettamente smaltata come il corallo, gira la scatola mostrando al sensore il codice a barre; poi la fa scivolare davanti alla cassa e quella emette un bip lieve lieve e il prezzo viene stampato sullo scontrino. E mentre fa tutto questo pensa che il suo uomo, a pensarci bene, non sarebbe mai stato in grado di tirar su un figlio. Eppure lo vuole anche lei un figlio, un maschietto di nome Simone. Alto e magro, come suo nonno, di quelli che quando sono adolescenti ti incasinano la vita ma poi... poi... – e qui sospirò rumorosamente – poi ti danno la soddisfazione di vederli andare in giro per il mondo come se niente gli fosse estraneo o precluso. Come se gli bastasse puntare l'indice su un qualsiasi punto della cartina geografica per poter dire di esserci stato.
– Allora hai già deciso il nome – dissi. Mi massaggiai i fianchi, esausto, e mi inginocchiai. La vidi rannicchiata come un feto in un utero post-industriale, aggrappata a un manico di scopa elettrica, col torace scoperto e le spalline della sottoveste rivolte verso il basso. Aveva la testa poggiata sulla parete e le mani a coprirsi i seni, come se non li avessi mai visti.
– Facciamo qualcosa domani? Oltre a scopare, dico. Non ho voglia di rimanere sola a casa.
– Devo lavorare – dissi io – Ci sono un paio di scadenze a breve termine e un altro paio che devo portare avanti. Inoltre devo parlare con il commercialista per le questioni fiscali.
– Vai a Roma, quindi.
– Penso di potermela cavare restando qui, almeno per domani.

lunedì 14 giugno 2010

E' Cornflake il nome mio

Cornflake ha l'aspetto di una bambina di quattro anni. Non si sa da dove provenga, non ha un passato e come Pinocchio è spuntata dal nulla. Non è nata da un ciocco di legno però, ma da una catasta di scatole di cornflakes, almeno così sembra, e questo spiega il nome. Se dice bugie le si accorciano le gambe, se si getta dalla finestra plana come una foglia e soprattutto profuma di biscotti al burro.
Cornflake sconvolge quindi la vita di uno scialbo ragazzo di nome Dee, mantenuto dalla ricca zia Celestina, fin quando decide di andarsene e fare esperienza in quel mondo che le è estraneo e in cui non sa dare un nome alle cose. Lì incontra persone di ogni tipo, e ognuna di esse (o quasi) è una rivisitazione dei personaggi di Pinocchio.
Il romanzo di Micol  A. Beltramini va oltre la semplice operazione di riscrittura della favola. E' una rivisitazione e reinvenzione pop del mondo di Collodi in cui personaggi sono ridisegnati con un'umanità e disumanità moderna. Così, ad esempio, Mangiafuoco vuole incendiare un Luna Park per poter poi comprare il terreno su cui è costruito, Dee invece è un moderno Geppetto (nel libro verrà mangiato da uno yacht non da uno squalo), un post-adolescente senza particolari valori in cui credere, smidollato, la cui vita solitaria e monotona viene sconvolta dall'arrivo della strana ragazzina e ovviamente da questa imparerà qualcosa come nei classici romanzi di formazione.
Lo stile di Micol Arianna Beltramini, già autrice di Vienimi nel cuore, ed. Coniglio, è molto scorrevole ed efficace.
Il perché del titolo? I disegni che ritraggono Cornflake, realizzati dall'autrice stessa, sono del tutto identici alla piccola protagonista dell'anime Memole dolce Memole, senza però lo strano cappello che le calza a pennello.

Cornflake
di Micol Beltramini
ed. Castelvecchi
14 euro

sabato 12 giugno 2010

Riguardo l'editoria a pagamento. Un chiarimento

Nota iniziale: ho deciso di scrivere un post perché il messaggio a cui fa riferimento questa mia "lettera aperta" è vecchio e i blog non sempre facilitano l'approfondimento delle discussioni importanti che passano, con troppa facilità, in seconda o terza pagina.
Mi riferisco a questo post (con tutti i commenti che fino ad oggi non avevo letto):
http://fenicedicarta.blogspot.com/2010/05/giornata-contro-leditoria-pagamento.html
e a quest'altro post scritto da Ayame/Linda sul blog del Writer's Dream.
http://www.writersdream.org/blog/2010/06/pagare-per-lavorare-e-lavorare-gratis/


Ciao Ayame/Linda. Ho scoperto che avevi commentato con un percorso mentale inverso: ho letto il blog del WD e ho capito che quello che contestavi l'avevo detto io pochi giorni prima. :) Quindi sono tornato a vedere se avevi commentato anche il mio post, e così infatti era.
Per questo ti rispondo in ritardo: non me ne ero accorto, colpa dei limiti della piattoforma di blogger.

Voglio puntualizzare alcune cose. Inizio dalla più facile: non ti ho mai detto come amministrare il WD. Condivido il modo con cui lo amministri e i criteri che utilizzi. Se così non fosse, molto semplicemente, non ne parlerei. Quindi se ogni tanto in questo blog parlo del WD è perché ritengo giusto informare i cinque visitatori sulla questione delle case editrici a pagamento. Se hai letto qualche vecchio post e se hai visto alcune delle strisce avrai capito che la penso come te: le CEaP sono un male.
Ho riportato il comunicato stampa così come voi l'avete messo a disposizione perché ne condivido i contenuti. Poi ovviamente ho delle idee diverse dalle tue: non tollero le case editrici a pagamento ma neanche quelle che ti pubblicano senza retribuzione percentuale sulle vendite (né ti danno un acconto ovviamente). Sono molto meno flessibile. Queste idee (mie, personali, contestabili, non verità in tasca) le ho scritte sul mio blog perché come il WD è tuo, questo blog è espressione del mio pensiero. Infatti quella nota che contesti non l'ho messa dopo il tuo comunicato stampa ma come commento perché è una considerazione personale.

E' una mia idea che pubblicare senza retribuzione non conviene. E questa mia idea, in questo blog, verrà ribadita cento e più volte. Non mi sono mai azzardato a dire che chi non ha le mie idee dovrebbe cambiarle.
Il tuo forum lo seguo da un paio di anni, sono iscritto (lurko e basta dal cambio della piattaforma, credo di aver scritto un solo messaggio durante la chattata con GL D'Andrea) e so come la pensi. Però prendersela con chi non è d'accordo con queste sfumature riguardanti le politiche aziendali delle case editrici credo che sia una perdita di tempo.
Che non ero d'accordo te l'ho detto su facebook il giorno in cui hai messo nella lista free una casa editrice che non retribuisce i suoi autori. Te l'ho detto, ma non ti ho mai imposto la mia idea. Sono semplicemente due modi di pensare un po' diversi.
Mi dispiace del tono che usi, davvero. Lo dico perché spesso nei blog, forum e social network le discussioni degenerano in litigio senza un vero motivo. Non ho intenzione di defilippizzare questo blog e litigare per le mie idee (che rimangono quelle per adesso) con te dato che c'è una stima di fondo per il tuo lavoro che so averti dato soddisfazioni e qualche grana legale.
Quindi io accetto il tuo metodo classificatorio e per questo anche in futuro pubblicizzerò le attività del WD, però tu almeno accetta il fatto che non sono d'accordo con te su tutto.
Mirco

Come allegato a questa lettera aperta mi permetto di incollare un'email spedita a un visitatore che mi chiedeva  informazioni sul gruppo editoriale Albatros. Per ovvi motivi ometto il nome. Lascio scritti anche eventuali errori.

Ciao *&%&/£/, rispondo con molto interesse al tuo messaggio.



Il gruppo editoriale Albatros è quello che viene definito un "editore a pagamento", ovvero un editore che si fa corrispondere soldi per pubblicare un libro, in questo caso date le testimonianze di molti credo che siano anche sull'ordine delle migliaia di euro.

Gli editori a pagamento sono un male, te lo dico in tutta franchezza. Non è pagando che si può avere la soddisfazione di vedere un proprio scritto circolare. La pubblicità che ti offrono è perlopiù fittizia e non è detto che questo termine del contratto venga rispettato. 
Un vero editore non è quello che si fa pagare per pubblicare un libro, ma è quello che crede nello scrittore e nel libro e investe soldi. Una vera casa editrice deve investire su di te se veramente pensa che il tuo libro sia buono. Una volta che una casa editrice a pagamento prende i tuoi 2 o 3 mila euro se ne frega del tuo libro perché il suo tornaconto lo ha già avuto. Non investirà più su di te.
Quello che ti ha chiamato è tra gli editori a pagamento più costosi e tra coloro che promettono più cose. Non ti fidare. Sappi che è difficile che un libro pubblicato pagando venga preso in considerazione dalla critica e soprattutto dai distributori (quelli che decidono quali libri portare nelle librerie di tutta Italia).
Il punto quindi non è se è conveniente o no il prezzo, è che non si deve pagare per pubblicare. Meglio rimanere "esordienti", tenere il libro nel cassetto aspettando l'occasione giusta e l'editore serio.
Quello che penso degli editori a pagamento l'ho scritto in questo post:
http://fenicedicarta.blogspot.com/2010/04/decalogo-case-editrici-dalle-free-alle.html

Invece per farti un'idea di cosa sia questo mondo surreale in cui si paga invece di essere pagati, ti consiglio di visitare un interessantissimo forum. Iscriviti e confrontati con chi, come te, ha ricevuto contratti di questo genere.
Per quanto riguarda il gruppo Albatros c'è già una sostanziosa discussione che devi leggere. 
http://writersdream.org/forum/viewtopic.php?f=17&t=692&start=0&sid=f16db246141bbd56030f036184e14458

Quindi il mio personale consiglio e di non farlo. Purtroppo capirai che non è conveniente quando sarà troppo tardi, quando ti accorgerai che il tuo libro non ha la visibilità che volevi e che è difficile piazzare tutte le 185 copie di cui disponi e che dovrai vendere a presentazioni organizzate da te, a tue spese. 
Copie pagate a prezzo pieno poi, neanche a prezzo ridotto. Non c'è limite al peggio.
Non lo fare, fidati.
Mirco C.

venerdì 11 giugno 2010

Mare di Libri, Festival dei Ragazzi che Leggono

Il 18, 19 e 20 giugno si svolgerà la terza edizione di Mare di Libri, il primo festival letteratura dedicato agli adolescenti.




Tre giorni di incontri con gli autori italiani e stranieri più amati dai ragazzi, laboratori e spettacoli.

Mare di Libri è una manifestazione all'insegna del divertimento culturale, un luogo di appuntamento per tutti i ragazzi che amano i libri e la lettura e che hanno voglia di incontrare altri coetanei che condividono le loro passioni.
Tra le iniziative interessanti di questa associazione c'è Un libro in un sms. I giovani volontari vi propongono la lettura di un libro con un recensione non più lunga di un SMS.
http://www.maredilibri.it/index.php/un-libro-in-un-sms

Sito ufficiale:
http://www.maredilibri.it/

Video dell'edizione 2009.

mercoledì 9 giugno 2010

L'ultima stagione, parte 1 di 5

Questo racconto è la versione lunga di Connessione persa. Molte sequenze sono state rielaborate, altre aggiunte. Ve lo propongo diviso in cinque parti data la lunghezza (circa 10.000 parole). Quindi per i prossimi quattro mercoledì sapete quale blog evitare di leggere.

Dalla parte di Laura

Era sorridente e camminava con una sicurezza che non è facile da trovare negli uomini di oggi.
– Sto per trasferirmi, sai – fu la prima cosa che mi disse dopo essersi presentato al bancone del pub. – Sono stanco della città, dei clacson alle sei di mattina, delle liti condominiali. A Roma vanno tutti di fretta e nessuno ha voglia di rallentare, di guardarsi indietro per cercare di capire se la direzione presa è quella giusta. Nessuno ha voglia di rendersi conto di ciò che ha perso strada facendo. Vanno veloci e tirano dritto finché non arrivano a destinazione.
Bevve un sorso del suo Martini bianco, espressamente senza ghiaccio, e sospirò soddisfatto.
– Andrò a vivere in provincia, in una villetta che ho appena finito di restaurare. Mi è costato più il restauro che l’intero immobile.
Poi rise e rimasi abbagliata dalla perfetta lucentezza dei suoi denti. Neanche un difetto, pensavo tra me, con la mano sospesa a mezz’aria e i trentatré centilitri di birra che schiumavano nel boccale e io, che dopo il divorzio non avevo più avuto un uomo, schiumavo insieme a essa.
– E il lavoro? – chiesi, affondando le labbra nel boccale.
– Ho un'azienda che produce software – rispose lui – la maggior parte del lavoro consiste nello spedire email, organizzare videoconferenze con i miei dipendenti e cazziarli mandando faccine arrabbiate. Firmo i documenti, li scannerizzo e li spedisco tramite  server FTP. Telelavoro lo chiamano. Posso farlo ovunque.
– S... sembra interessante – balbettai sotto i baffi dipinti dalla schiuma della birra.
– E’ un lavoro come un altro. Con la differenza che ho molto tempo libero, posso organizzare i miei orari come voglio e avrò tempo da dedicare ai miei figli un giorno.
– Sei fidanzato quindi.
– No, non ho una ragazza – disse alzando le sopracciglia, poco più giù di un vistoso ciuffo che gli copriva metà fronte e che ogni tanto doveva scostare con una mano – Non hai chiesto se ero sposato, ma se ero fidanzato.
Alzai le spalle imbarazzata e tornai a bere la birra incrociando gli occhi sul fondo del boccale. Nel frattempo speravo che non finisse mai. Oh birra, salvami tu, ti prego! Se me ne esco con qualcosa di sbagliato se ne andrà, non mi chiederà il telefono, anzi peggio, mi chiederà soltanto il contatto di Messenger e si limiterà a mostrarsi nudo con la webcam. Sesso virtuale. C'ero già passata e mi ero ripromessa di non farlo più anche se, devo ammettere, ho sempre preferito mostrare una coscia pixelosa piuttosto che cellulitica.
Nonostante le mie preghiere la birra finì e quando allungai la mano verso la ciotola delle noccioline mi accorsi che anche quelle piccole maledette erano terminate  Non c'era più niente con cui tener occupata la bocca, a meno che non cominciassi a leccare il sale che le noccioline avevano lasciato sul fondo della ciotola.
– Ho tirato a indovinare – dissi. Non mi resi conto che lo sguardo era caduto ancora una volta sulla sua mano sinistra, vergine da ogni sorta di ammennicolo argenteo. Insomma, non aveva nessun anello al dito, né al naso, a quanto potevo capire.
Sorrise come neanche Tom Cruise sapeva fare e mostrò la mano affusolata che avevo notato non appena mi si era seduta vicino a lui. La girò due o tre volte di fronte a me, alla luce di una lampada da tavolo che dal bancone gettava una lama di luce lasciando il locale immerso in una soffusa penombra.
– Hai delle belle mani, si vede che non sei un contadinello – dissi per cambiare discorso.
– Mio padre lo era.
– Scusami – balbettai imbarazzata – non volevo... adesso cosa fa?
– E' impiegato, presso il cimitero.
– Interessante – aggiunsi.
– Fa il cadavere.
 Quando dissi con estrema serietà: “e poi dicono che non esiste più il posto fisso!” , Marco mi guardò e spalancò gli occhi, poi rise con slancio e il rimasuglio del Martini nel bicchiere zigrinato iniziò a ondeggiare come un Maelstrom. Il suo cuore e la mia testa si riempirono dell'eco di quella risata. Dovette lasciare  il bicchiere e accasciarsi sul bancone, sconfitto dalla mia ironia e dal mio innato istinto di sopravvivenza.
– Sei brillante – riuscì a dire una volta ripresosi dalla risata convulsa. Si stropicciò gli occhi, si accorse di aver finito il Martini e ne ordinò un altro. Del secondo Martini ne fece un sorso unico e tornò a guardarmi stupito come un bambino che ha di fronte a sé Babbo Natale.
– Sei simpatica, e anche molto bella – disse in un sussurro – Ci rivediamo, vero?
– Certo – risposi dopo non so quanto tempo.
– Cosa ti piace fare? Torno a Roma venerdì e ho il week end libero.
Feci spallucce poi dissi:
– Cinema, ristorante, c'è una mostra di Renoir da non perdere, oppure vieni direttamente a casa mia e mi sculacci come una scolaretta cattiva.
La coverband dei Radiohead coprì le ultime parole che dissi. Quando lo vidi fissarmi stupito cominciai a pensare che non fosse andata così.
– Senti, c'è un concerto di Biagio Antonacci sabato. Conosco alcuni del suo entourage, non sarà difficile entrare.
– Porc...! Sì, cioè, certo! Biagio è il mio cantante preferito da sempre, lo sapevi?
– No, come avrei potuto – si grattò il naso. Io istintivamente, e senza rendermene conto, lo imitai.
– Pensi che riuscirai a procurarmi un autografo?
– Potrai avere molto di più.
Iniziai a immaginare loro due che mi sculacciavano contemporaneamente. Di spazio ce n'era per entrambi.
–  Se riesco a beccarlo prima del concerto ceneremo con lui.
– Oh – sussurrai.
Pensai per la prima di aver trovato l'uomo per me. E’ carino, con le spalle larghe e il sorriso sincero, alto abbastanza per una spilungona come me. E poi ha un bel lavoro, è simpatico e non ostenta le sue doti. Soprattutto: vuole dei figli, il motivo per cui ho deciso di divorziare da Samuele, il signor salto della quaglia, mister “preservativo-a-basso-costo”. Accidenti, quanto ho goduto quando l’ha trovato bucato.
Quella volta avevo deciso che era ora di fare qualcosa. Quindi aspettai che Samuele tornasse a casa poco dopo l'orario della cena, come accadeva sempre quando andava in palestra, stanco o fintamente stanco, che gettasse la borsa della palestra per terra appena entrato e si venisse a sdraiare sul divano con me. Io l'aspettavo in pigiama, al solito angolo del divano dove i cuscini creavano un piccolo nido e io mi ci rannicchiavo come un passerotto. Fingevo di fare zapping cercando qualcosa di divertente da vedere. Invece aspettavo lui. Quando entrò guardavo la TV rosicchiandomi le unghie già cortissime di suo e arrotolando, con l'altra mano, una ciocca di capelli. Avevo lasciato una ciotola di patatine vuota sul tavolino basso e qualche briciola del pane integrale che avevo mangiato come cena. Sbuffò e lasciò cadere la borsa della palestra per terra. Mi stiracchiai e mi misi a sedere. Quando si sedette vicino a me riconobbi l'odore del suo doccia schiuma preferito. Stavolta in palestra ci era andato sul serio.
– Ti sei divertito in palestra? – chiesi poco dopo.
– Non ci si diverte in palestra, si lavora – disse lui. Si impadronì del telecomando e cambiò molti canali prima di decidersi cosa vedere.
– Giusto. Hai ragione – risposi. Pensai al profilattico che avevo preparato e che era nel cassetto del mio comodino. La spilla da balia era tornata al suo posto nella cassettina dove riponevo aghi e bottoni. Valeva la pena rinunciare al finale del film, pensai.
– Il lavoro, dico, tutto bene? Quella storia del cliente che vuole denunciarvi?
– Tutto ok – rispose lui, rimanendo fisso sullo schermo.
 Mi avvicinai e  appoggiai la testa sulla sua spalla. Il muscolo in tensione mi fece venire qualche brivido. Accarezzai l'avambraccio e rimasi a fissare la stessa cosa che fissava lui. In quei minuti di silenzio la scena di un delitto era l'unica cosa che sembrava accomunarci.
– A te invece come è andata? – sussurrai.
– Come dici?
– Niente, volevo vedere come ci si sente ad avere un po' di attenzione.
– Ah!
– Penso che potrei licenziarmi, anche domani se riesco a buttare giù la lettera
A quel punto mi accorsi che aveva cambiato espressione. Un automatismo lo indusse a premere il tasto di pausa del telecomando e quando si rese conto che non era un DVD, sentii il muscolo dell'avambraccio tremare dalla rabbia. Il telecomando scivolò per tutto il tavolino e cadde in terra, sul tappeto, emettendo un rumore ovattato e innocuo. Sospirai sollevata.
– E poi che hai intenzione di fare?
– Cercare un altro lavoro – dissi a fatica.
– Pensi che ci sia la fila lì fuori? Che vogliano prendere una quarantenne che ha lasciato il suo vecchio lavoro perché aveva voglia di cambiare?
– Ho un buon curriculum.
– Dai retta a me – disse guardandomi finalmente negli occhi – faccio colloqui di lavoro da quindici anni. L'ultimo ila settimana scorso. Pensi che sia più produttiva una ventenne appena diplomata con la voglia di spaccare il mondo o una quarantenne in crisi che ha voglia di cambiare vita?
– Da qualche parte devo iniziare – dissi, o forse questo lo pensai soltanto. Pensai di dirgli inoltre che ero stanca di quella monotonia, della vita che conducevo, del fatto che lui non voleva avere figli e io sì. Che forse era banale dirlo, ma ero cresciuta in una famiglia numerosa e ritrovarmi in una casa con soltanto io, lui e l'agente Grissom, non era certamente quello che sognavo da bambina.
Nonostante tutto era un bell'uomo e io ne ero attratta. Qualche minuto dopo eravamo avvinghiati l'uno all'altro. Mi fermai e gli annusai i capelli che sapevano di sciampo alle mele verdi. Gli sorrisi ingenuamente.
– Vado a prendere il necessario – dissi. La sua risposta: “ Certo! Non mi piace avere insetti in casa” azzerò ogni mio impulso sessuale.
Mezz'ora dopo mi accorsi che aveva finito il suo compito e che era ora di provvedere all'igiene. Decisi di uscire dal salotto con una scusa: “vado a lavarmi”, dissi. Non sono brava a mentire, e lui, anche per il lavoro che fa, era dannatamente bravo a capire le persone e si accorgeva subito se parole, sguardo e movimenti del corpo confluivano verso una bugia detta male.
Si accorse della perdita del profilattico. Lo sentii imprecare e rovesciare oggetti dappertutto. Mi raggiunse in bagno. Aveva lo sguardo torvo di un uomo a cui avevano appena diagnosticato una brutta malattia.
– Si è rotto! Merda!
Quando uscì si era calmato. Era ancora completamente nudo e nell'oscurità del corridoio alcune gocce di sudore gli imperlavano i muscoli scolpiti dalle ore di palestra. Prese il telefono, passò una mano nervosa sui capelli e si girò verso di me.
– Qual è il numero del tuo ginecologo? – chiese. Risposi che non conoscevo a memoria il numero del mio ginecologo e che avrei dovuto cercarlo sull'agenda. Glielo dettai e quando finì di comporlo mi disse:
– Sai cosa devi fare, vero? Conosci la pillola del giorno dopo? Fisso un appuntamento con il tuo ginecologo e te la faccio prescrivere.
Annuii e distolsi lo sguardo facendo finta di essere attratta dai suoi polpacci torniti e dal suo sedere duro come quello di una statua di Apollo.
Ciononostante volevo rimanere incinta. Il mese seguente gli dissi che avevo cominciato a prendere la pillola, ma non era vero. Quando se ne accorse me ne diede parecchie e  dopo avermi picchiata decise di perdonarmi, per quella volta. Decise inoltre di provvedere lui stesso alla contraccezione: sarebbe andato in farmacia per farsi consigliare dei buoni profilattici, resistenti e non troppo cari. Non che ne gliene servano tanti di quei cosi, due alla settimana sono già troppi. Ho quarantuno anni e ho l’impressione che di tempo per avere figli me ne resti poco. Non voglio perderne ancora.
 Tornata a casa dal pub la prima cosa che feci fu cercare la canzone adatta per ricordare quella serata. Dopo aver spulciato uno ad uno i file del mio iPod, misi su “E’ l’uomo per me” di Mina e presi a saltellare per tutta la camera come una ragazzina innamorata. Sembravo Liv Tyler in “Io ballo da sola” soltanto con un po’ di cellulite sulle cosce e la pelle ruvida. Quella sera però, tutto ciò che pensavo fosse un difetto era diventato un pregio. Ero la zucca diventata carrozza.

lunedì 7 giugno 2010

La ladra di Cagliostro di Giulio Leoni

La ladra di Cagliostro è un libro per ragazzi in cui Giulio Leoni, già apprezzato scrittore di thriller storici (tra le altre cose) ha voluto principalmente rappresentare l'atmosfera della Venezia del diciottesimo secolo piuttosto che costringersi in una narrazione dove l'avventura, come capita sempre più spesso nei libri per ragazzi di oggi, è la parte predominante se non unica. Lo scrittore ha infatti arricchito questa narrazione con precise descrizioni dei luoghi, del vestiario e del modo di vivere di quel tempo evidenziando una notevole cura descrittiva del contesto.

I protagonisti di questa storia non hanno bisogno di molte presentazioni: sono il famoso Conte di Cagliostro, già Giuseppe Balsamo (identità che nel libro nega se non ricordo male), alchimista, massone e truffatore, e Serafina (Lorenza Feliciani), un'affascinante adolescente che in questo libro vive di espedienti per sfamare se stessa e un gruppo di bambini poveri, mentre nella realtà (Serafina come Cagliostro sono realmente esistiti (1)) era una giovane prostituta che il futuro conte e fondatore del culto del Gran Cofto conobbe in uno dei quartieri più malfamati di Palermo. L'intenzione di Leoni infatti non è quella di rimanere fedele ai personaggi storici, ma di ricostruirli e forse modernizzarli, immergendoli in una Venezia cupa e decadente dove la machiavellica mente del Conte architetta una truffa ai danni del Doge per impadronirsi di una pietra preziosa.
Serafina rimane affascinata da Cagliostro e dalla facilità con cui riesce a carpire la fiducia delle persone. Cagliostro infatti, senza neanche presentarsi apertamente come guaritore, non fa altro che somministrare dell'innocua panacea a chi gli chiede un miracolo convincendo poi il malcapitato di essere, se non guarito, almeno migliorato. Serafina decide quindi di diventare sua assistente e aiutarlo nella truffa, in un'escalation avventurosa che porta (segue spoiler) a una rocambolesca fuga dai Piombi allo stesso modo in cui fu narrata da Giacomo Casanova.
Il finale lascia intendere altre avventure che forse, chissà, in futuro potremmo leggere.

(1). Se siete interessati a conoscere la vera vita di Cagliostro vi consiglio due libri di Roberto Gervaso. Il primo è Il grande mago. Vita, morte e miracoli del conte di Cagliostro (ed. Rizzoli). Io ho una versione da edicola Fabbri con titolo Cagliostro (entrambi non disponibili). Il secondo ha come titolo La regina, l'alchimista e il cardinale (ed. Rubbettino) in cui Gervaso si sofferma sulla vicenda dello scandalo della collana, un fatto storicamente avvenuto nella corte di Luigi XVI che ha avuto come protagonisti Cagliostro (che nonostante per una volta fosse innocente finì nella Bastiglia e poi esiliato dalla Francia), Lorenza/Serafina (che per avere favori dalle guardie della Bastiglia ne fece altrettanti a loro) e il cardinale Rohan, amico di Cagliostro.

La ladra di Cagliostro
Giulio Leoni
Mondadori
Euro 17.00

domenica 6 giugno 2010

Prodigium: l'acropoli delle ombre

Sono trascorsi alcuni mesi dal ritorno dei Prodigium dall’isola di Eterium. Dafne ha coronato il suo sogno di diventare una star, Kaleb è costretto a nascondersi per la dura repressione degli Ordinatori, Ryan non riesce ad affrontare la complicata situazione familiare ed è fuggito di casa, Alyssa partecipa a combattimenti clandestini per denaro.

Intanto, nelle viscere dell’Acropoli delle Ombre Ravnakor sta tentando di risvegliare i Pilastri di Silicio con l’aiuto del Burattinaio e a Synapsis gli Ordinatori si riorganizzano sotto la guida di Von Zantor. Percepito il pericolo, la Magistra e i Tutori richiamano a Theorica i quattro Prodigium per impedire che si avveri la Profezia Dimenticata e che la follia di Ravnakor mieta vittime innocenti: nuovi scontri sono ormai imminenti, mentre Lady Naeel continua a tramare per perseguire i suoi scopi.
Nel secondo e ultimo capitolo della saga “Prodigium” saranno svelati tutti i misteri di Eterium, l’identità del Burattinaio, il vero legame dei quattro ragazzi e l’oscuro passato della Conclave in un intreccio di colpi di scena e doppi giochi.

Prodigium: l'acropoli delle ombre
Di Francesco Falconi
Editore: Asengard
Prezzo: 15,50 Euro
Note: E' il secondo libro di una serie. 

venerdì 4 giugno 2010

Bambini nel bosco, una chiave di lettura

Bambini nel bosco fa riferimento a una letteratura e a una cultura popolare adulta che Beatrice Masini ha voluto prendere in considerazione per esemplificare, a mio parere, la sopraffazione degli adulti nei confronti dei bambini. Quindi trovate citato innanzitutto Il signore delle mosche di William Golding. Scoprirete questo classico nella descrizione di quella microsocietà in cui i bambini protagonisti sono costretti a vivere e organizzarsi; lo trovate nella crudeltà dei loro gesti e nella sopraffazione che i ruoli, imposti da questa microsocietà, comportano. Poi trovate citato anche Il prigioniero, “non sono un numero...”, che probabilmente gli young adult faticheranno a cogliere nonostante il remake e lo status di “cult” di questo telefilm e che forse va spiegato proprio da un adulto affinché di queste sfumature non si perda nulla.
Nell'isola dove i bambini “sopravvivono”, come animali chiusi in un recinto, ci sono telecamere ovunque, e il primo nome che viene in mente in questo caso è George Orwell. L'idea è figlia di 1984 quindi, o nipote da parte de L'isola dei famosi che ne è una rappresentazione parodistica. È chiaro comunque che i bambini per la Masini sono vittime tre volte: vittime a livello fisico (vengono costretti a procacciarsi il cibo da soli e picchiarsi per averne), a livello mediatico (telecamere supertecnologiche che li seguono ovunque) e a livello culturale (non vengono educati, non hanno libri e non hanno quindi una cultura).
Per la Masini, che ha lasciato da parte la poeticità del Diario di una casa vuota, il libro e la cultura sono il grimaldello che porta all'emancipazione. Nel momento in cui i bambini trovano un libro e leggono le storie in esso contenuto, riscoprono il gusto dell'invenzione narrativa e l'importanza della fantasia. Riescono quindi a uscire da quel torpore mentale in cui erano costretti, quel “Nulla” che Ende rappresentava come la fine della fantasia stessa e che la Masini, con meno finezze poetiche e filosofiche, ha deciso di rappresentare invece con la durezza dell'invenzione fantascientifica e distopica.
Nel momento in cui i bambini si risvegliano diventano “Bambini nel bosco”, e seguendo una linea tipicamente fiabesca fuggono e si inoltrano in una foresta sconosciuta e pericolosa lasciando briciole di se stessi per fuggire dalla prigionia e dagli adulti oppressori.
Come va a finire lo scoprirete leggendo questo libro.

Bambini nel bosco
di Beatrice Masini
Fanucci Editore
Età di lettura: dai 12 anni
Prezzo: 14 euro.

mercoledì 2 giugno 2010

Peter Orlovsky

Si è spento domenica all'età di 76 anni, a causa di un tumore ai polmoni, il poeta della Beat Generation Peter Orlovsky.
In questo video Peter Orlovsky è in meditazione mentre il suo compagno e grande poeta Allen Ginsberg canta la ballata "Do the meditation rock".


martedì 1 giugno 2010

La Tribù dei lettori. Festa della lettura con i ragazzi

Domani, in otto piazze di Roma, prende il via La tribù dei lettori (dal 2 al 6 giugno). E' un progetto di comunicazione che non si accontenta di far leggere, ma vuole agire, durante un intero anno, sulla qualità e sulle modalità della lettura dei più piccoli, rivendicando per loro non solo il piacere e il divertimento che questa esperienza porta con sé, ma anche l’autentica necessità di farla.

Far rinascere l'amore tra i bambini e i libri: la prima edizione della Tribù dei lettori, una vera e propria "festa della lettura" che si svolgerà a Roma e provincia dal 2 al 6 giugno, si pone l'obiettivo di arginare la fuga dai libri dei piccoli piccoli lettori, sempre più presi da videogiochi e tv. Il progetto, nato da un' idea dell' associazione culturale PlayTownRoma, coinvolgerà editori italiani ed internazionali con incontri nelle scuole già a partire da gennaio. Poi, tra il 2 e il 6 giugno nelle piazze di Roma, la premiazione del miglior libro dell'anno, a sceglierlo sarà una giuria di bambini delle scuole elementari e medie.