martedì 27 maggio 2008

Il bambino di ghiaccio

Questa è una fiaba breve che scrissi dodici anni fa a cui ne seguiranno altre. Metterò online anche racconti per bambini e ragazzi: il tipo di letteratura che preferisco.

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A volte un bimbo nasce sfortunato, e il suo unico destino è quello di non avere un destino.
Capita a volte, ed ogni volta il sole rimane ad osservarne la storia, pallido e impotente. Proprio lui, il più grande di tutti, l’eletto tra tutte le stelle che con il suo fulgore ravviva le giornate di ogni creatura del nostro pianeta, quelle volte vorrebbe nascondersi nel buio della notte per piangere tremante nel suo angolo di latte e chiedere scusa per una colpa che non è sua, ma soltanto della sfortuna.
Così pianse anche per quel bambino nato durante il giorno più caldo dell’anno e forse del secolo. Nacque dando la morte a sua madre che lo custodiva in grembo con affetto.
Morirò, ma lui vivrà per me, ripeteva sempre. Sapeva di dover morire, ma ciò non la rattristava: chi almeno una volta si è posto il problema di definire il destino, sa che morire dando alla luce un figlio è una gran bella cosa.
Nacque il giorno più caldo del secolo e forse di tutto il millennio.
Lui, proprio lui che era stato destinato ad essere trasparente come il ghiaccio, freddo come il ghiaccio, anzi, tutti nel mondo ne parlarono perché non si era mai verificato che nascesse un bambino tutto di ghiaccio e di brina.
Non che il suo cuore fosse di ghiaccio, il suo cuore era rosso come il corallo e pulsava timidamente nel petto. Ero rosso per la gioia di vivere e caldo per l’amore di sua madre, il cui unico desiderio era di sentirlo battere come un orologio, tic tac, tic tac. E ad ogni battito sul viso di suo figlio sarebbe apparso un sorriso che lei ogni volta avrebbe ricambiato.
Ma né lei né nessun altro vide sorridere quel gracile bambino di appena un chilo di peso che sembrava scolpito nel ghiaccio delle montagne.
Nacque il giorno più caldo del millennio e forse di sempre.
Stentava a muoversi nella piccola cella frigorifera preparata appositamente per lui, piena di strani apparecchi che lo avviluppavano come una farfalla nella crisalide.
Il suo cuore rosso come il corallo e caldo dell’amore che non avrebbe mai profuso, lo sciolse piano piano, fin quando cessò di battere divenendo anch’esso acqua.
Non ebbe un funerale come tutti gli altri: ciò che rimase del bambino fu raccolto nella scodella color pastello in cui avrebbe dovuto mangiare le prime pappe se soltanto il destino avesse voluto.
Fu lasciato evaporare al sole, e lì abbracciò finalmente la mamma che lo stava aspettando.

giovedì 15 maggio 2008

Quella volta in cui ho visto Goldrake volare

Racconto breve dedicato alla prima messa in onda di un cartone animato entrato nella memoria di una generazione in bilico tra passato e presente: si tratta di Atlas Ufo Robot, ovvero Goldrake. Ho scritto questo racconto breve in occasione del trentennale. Inizialmente non aveva un titolo, poi ho deciso per "4 aprile 1974" perché quella è la data in cui tanti bambini videro per la prima il robot guidato da Actarus volare nel cielo del Giappone. Infine ho cambiato idea e gli ho dato un titolo più letterario "Quella volta in cui ho visto Goldrake volare"

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sabato 10 maggio 2008

Appuntamento a tre

Racconto scritto per un concorso indetto dal Corriere della Sera (credo 2002 o 2003). In quell'occasione ho avuto la soddisfazione di vedere il racconto pubblicato, esattamente al seguente link:
Link Corriere.it
In questo racconto viene citato Paul Auster che con la sua "Città di vetro" contenuta nella raccolta "Trilogia di New York" è stato fonte di ispirazione.
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Mi sono sempre chiesto cosa si prova a leggere il proprio nome sulla copertina di un libro. Adesso lo so. In basso, al centro, stampato in corsivo, nero, dietro di esso una macchia gialla che avrebbe dovuto somigliare ad inchiostro rovesciato. Il resto della copertina non aveva alcuna importanza, neanche il titolo. Fu un’epifania, una situazione che credetti di non poter vivere mai. Trascorrevo pomeriggi interi leggendo i nomi degli autori dei libri sistemati nelle rastrelliere, sognando di trovare anche il mio. Baccelli, Borsari, Cellini, Lucchetti (o Lucchetta), Pirandello, Soldati, Salgari, Tommasi…. mai che leggessi Corridori, nemmeno per sbaglio. Magari qualcuno che si chiama Corridoni ad esempio, Marco Corridoni, l’autore di “L’omicidio del diavolo” duecentomila copie vendute. Nemmeno lui e’ riuscito a pubblicare qualcosa poveraccio, probabilmente trascorre le ore libere nelle librerie della sua città come me, cercando il libro di un autore inesistente chiamato Corridori Mirco.

Eppure non suona male. Vorrei l’ultimo libro di Corridori per piacere. Si’, quel tipo che si vede sempre al Costanzo Show. Mica suona male, penso. In ogni modo potrei adottare un nick, una falsa identità con cui pubblicare i miei libri più intimi, autobiografici. Sarei più libero. Abito in un paese davvero piccolo, mi conoscono tutti. Cosa succederebbe se il mio nome fosse stampato sulla copertina di un libro e quel libro fosse venduto nell’unica edicola del paese? Succederebbe un finimondo. Sarei sulla bocca di tutti, bombarderebbero di telefonate mia madre. Per non parlare della gloria postuma che preferirei evitare. Una piazza. Piazza Corridori. No, questo suona decisamente male, non mi piace.

Accarezzavo il mio libro percorrendone i bordi lentamente. Poi toglievo quel po’ di polvere che forse non c’era e tornavo a leggere il mio nome, tutto ad un tratto, come se non lo avessi mai fatto prima.

- Ti piace tanto quel libro? – Chiese una ragazza alle mie spalle

- Certo – risposi senza pensare, poi mi corressi - Cioè, sì, Corridori è un bravo scrittore, davvero

- Io mi chiamo Eleonora –aggiunse entusiasta

- Io Marco - mentii - Marco Corridoni

- Marco Corridoni…che incredibile coincidenza. Il mio nome lascia poco spazio ai fraintendimenti: Eleonora Baldi, non si chiama nessuno come me.

- Io mi chiamo Marco – ribadii accentuando la A - Marco CorridoNi – stavolta accentuai la N, per quanto lo si possa fare.

- Certo, capisco – sorrise - Che ne dici di parlare di CorridoRi- disse allungando la erre, che tra l’altro aveva più moscia del mio coso.

- Magari ti va di mangiare una pizza – aggiunse

Certo, certo che mi andava. Mica è facile rimorchiare in una libreria. Conosco un’ottima pizzeria vicino piazza Barberini, e’ all’aperto, e’ un po’ cara, d’altronde e’ impossibile trovarne una a basso costo da queste parti. Pero’ e’ un posto tranquillo per conoscerci.

La pizzeria era poco distante, una decina di minuti a piedi. Li percorremmo parlando del mio libro. Avrei preferito parlare di altre cose, di calcio per esempio, o di politica. Un argomento che fosse neutro rispetto al mio io.

- Mi piace il suo strano modo di vedere questa città. Roma nei suoi racconti, e’ qualcosa di vivo, intenso, e’ un esperienza che va oltre i sensi…. – spiego’ entusiasta mentre zuccherava il caffè.

Cercai di sembrare interessato. I miei pressanti tentativi di cambiare discorso fallirono per tutta la serata. Il derby, come e’ finito? Tifa Juve. La Ferrari quarta. Scoperto un cadavere a Napoli. L’ultimo film di Tom Cruise. Sangue, calcio, telefilm, io. Il mio libro no, che palle. Ero annoiato, volevo entrare più in confidenza. Parlare di me non è così interessante, parliamo di me invece.

- E’ un’ottima analisi- risposi - Ma credo che scrivere Roma o Milano o Parigi per lui sia la stessa cosa. Potrebbe benissimo ambientare i suoi racconti in qualsiasi parte del globo e non credo che perderebbero di significato.

- Certamente, e’ uno spirito cosmopolita. – aggiunse asciugandosi le labbra

- Sì…il conto grazie, offro io naturalmente- Lei rifiutò confusa, non mi sorpresi.

Ci alzammo, controllai il portafoglio e osservai di sottecchi il suo sguardo imbarazzato: stava per dirmi qualcosa. Aspettai che Eleonora Boldi…Boldi ha detto? Come il comico? …mi scaricasse: probabilmente l’avevo annoiata con le mie osservazioni su Corridori. E nell’impazienza di sciorinare le sue idee, non si è nemmeno accorta che in varie occasioni le ho parlato dello scrittore utilizzando la prima persona. La situazione mi parve chiara: non sono stato all’altezza delle sue aspettative. Voleva mollarmi.

- E’ stata una magnifica cena – disse - Spero che ci sia un’altra possibilità per conoscerci meglio.

- Certo, lo spero anch’io – aggiunsi sarcastico. Non avevo nessuna intenzione di farmi scaricare in quel modo. Decisi di giocare il mio asso nella manica.

- Credo di avere il suo numero di telefono

- Come?

- Ho il numero di telefono di Corridori – ripetei

- Non ci credo

- L’anno scorso mandò un curriculum presso la società per cui lavoro. Me ne parlo’ una volta il mio capo, a pranzo, il pomeriggio stesso controllai l’archivio e lo trovai. Con tanto di numero di telefono. Lo vuoi? – chiesi

- C..certo.. – balbettò

- Bene, adesso non lo ricordo, te lo mando non appena arrivo a casa.

- G…g..grazie

Il telefono squillò una volta, la seconda, stavo buttando giù il soggetto per un nuovo racconto. Squillò ancora, nessuno rispondeva. Toccò a me.

- Pronto? –

- Pronto…sto cercando Mirco Corridori…

Riconobbi la voce, la erre moscia spalmata su un leggero accento calabrese.

- Sono io… - risposi distratto dal pensiero di aver già letto qualcosa del genere.

- Salve, lei non mi conosce, mi chiamo Eleonora Baldi, studio lettere a Roma, mi dispiace disturbarla, a quest’ora poi…

- …Devo decidere l’argomento di una mia ricerca, se lei e’ disposto, vorrei parlare del suo libro. E’ molto bello…

- Beh – dissi chiedendomi se la mia voce al telefono fosse diversa

- Come posso aiutarti? - chiesi

- Possiamo incontrarci e parlarne. Domani, a cena. Offro io, è mio ospite.

Me lo aspettavo, che gioco strano avevo iniziato. A questo punto avrei dovuto declinare l’invito, non avevo scelta, come avrei potuto fare altrimenti? Ma per qualche strano motivo, dalla mia bocca uscì un reciso sì che non soltanto sconvolse la mia interlocutrice, ma sconvolse anche me.

Rimasi appeso al cartellone pubblicitario per una buona mezz’ora. Non che mi fossi impiccato, non ancora, ma la situazione in cui mi ero cacciato mi stava recando una sensazione di panico che credevo di non poter gestire. Allora mi sedetti su un muretto, dalla parte opposta del ristorante e mi appesi con le mani alla sbarra metallica del cartellone che pubblicizzava una marca di reggiseni. Eleonora sedeva al primo tavolo a sinistra dell’entrata del ristorante. La intravidi dalla finestra mentre fumava nervosamente. Passai lì due o tre volte, alla quarta un cameriere mi squadrò minaccioso. Che cosa avrei dovuto fare a questo punto? Prima soluzione: tornare a casa, aspettare una sua chiamata e scusarmi, un impegno improvviso avrei detto. Seconda: entrare nel ristorante e dirle che il numero che le avevo dato era il mio, cioè di Marco Corridoni, non di Mirco Corridori. Lei si sarebbe incazzata e se ne sarebbe andata via. Terza soluzione, forse la migliore: entrare e raccontarle la verità: io sono Mirco Corridori. Lei mi avrebbe perdonato e si sarebbe convinta che facevo bene a non dire agli sconosciuti chi fossi in realtà, con tutti quei matti che girano per le strade di Roma.

Entrai, deciso a scusarmi con Eleonora Beldì…Beldì credo…come il regista televisivo. Entrai dunque, con passo sicuro, scavalcando il cameriere che fino a qualche minuto prima mi aveva visto ciondolare sotto le enormi tette della modella. Sapevo già dov’era seduta, e con passo sicuro, svelto, mi avvicinai a lei, e prima di lasciarmi dire qualcosa urlò:

- Mirco….lei è Corridori Mirco…non credevo che sarebbe venuto sul serio! Piacere di conoscerla…

Rimasi in silenzio, per un attimo credetti che fosse una candid camera. Avete presente quando vi capita qualcosa di imbarazzante e vorreste che fosse tutta una messinscena della tv? Ecco, mi sarebbe piaciuto che fosse davvero così, che da dietro un separé uscisse fuori il presentatore e mi dicesse “sorridi, sei su candid camera”. Invece non fu così, Eleonora continuò a chiamarmi Mirco, a dirmi che trovava entusiasmante il mio libro, che avrei dovuto vincere il nobel. Mentre ritto davanti a lei, con le dita che si arrotolavano come spaghi, avrei voluto dirle che non mi chiamavo Mirco, ma Marco, Marco Corridoni. Poi pensai davvero di chiamarmi in quell’assurdo modo: Mirco Corridori. Uno con un nome del genere non può scrivere libri. Assolutamente. Forse una raccolta di barzellette sconce, ma non libri seri.

Trascorsi una serata nebbiosa, bevendo coca cola e mangiando qualcosa che somigliava a della pizza. Parlammo sempre del libro e di Corridori, quello stronzo che mi aveva soffiato la ragazza. Ci separammo verso la mezzanotte. Eleonora Belli….sì… Belli…come il famoso poeta, mi diede un sonoro bacio sulle labbra, poi si scusò dell’audacia e sussurrò che le donne del sud possono essere molto focose quando vogliono. Non capii, ero ancora stordito, pensavo soltanto al capostazione che di lì a dieci minuti avrebbe fischiato la partenza del treno. Ero in ritardo.

Salii sul treno correndo. Mi sedetti e ripresi fiato poco alla volta. Contai le stelle della stazione Termini, arrivai a quattro poi scomparvero tutte assieme lasciando una scia azzurrognola. I vagoni erano vuoti, una luce baluginava alle mie spalle istericamente. Sul sedile davanti a me lessi “Viva gli africani. Sara ‘85”.

Durante il viaggio di ritorno dondolai tra la veglia e il sonno coccolato dalla cadenza del treno. Riuscii a stare sveglio. A riflettere. Sentivo dentro di me una sensazione di vuoto difficile da definire, qualcosa che mi portavo dietro da molto tempo.


giovedì 8 maggio 2008

L'altro

Racconto di fantascienza scritto nel lontano 2001 per un concorso indetto da una rivista ormai defunta: MC Microcomputer. Non vinsi e non fu pubblicata. La pubblicai tempo dopo sul sito www.cravenroad7.it
Ispirata a "Sentinella" di Fredric Brown, "L'altro" è una variante del tema: e se gli alieni fossimo noi?
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La navicella viaggiò per svariate unità di tempo percorrendo 2.5 parsec. Attraversò incolume galassie, nebulose, qualche raro incontro con meteoriti in fuga dal nulla avevano costretto il suo pilota, nonché unico passeggero, a difendersi con le armi laser.
Al di fuori di essa le stelle strisciavano come serpenti, incrociavano la piccola Imbarcazione Stellare Marina, così fu battezzata dal suo capitano, proiettando i fulgori di una vita persa e forse estinta da migliaia di anni.

Quando attraversò la fascia di meteoriti che separa Marte e Giove, si sentiva già odore di mare. Il ritorno sul pianeta di origine era atteso da tutti i duecentocinquanta miliardi di persone sparse per tutta la galassia, con ansia, era un evento paragonabile allo sbarco lunare del primitivo Armstrong ventimila anni prima.

L’Imbarcazione Stellare Marina si fermò a dieci chilometri dal suolo terrestre. Lo schermo proiettava un enorme distesa d’acqua che nel corso degli anni aveva fagocitato la terra emersa riducendola a poche migliaia di chilometri quadrati.

I computer iniziarono ad elaborare i dati. L’atmosfera presentava notevoli quantità di anidride carbonica, poteva considerarsi ormai irrespirabile per L’homo sapiens sapiens. La temperatura arrivava a picchi di ottanta gradi nella fascia equatoriale e si riduceva a venti, forse trenta, nelle zone artiche. La scarsa vegetazione presentava delle espressioni biologiche innaturali. Piante mai viste si arrampicavano sugli scogli che negli anni precedenti al grande caos climatico che aveva surriscaldato il pianeta, erano parte integrante delle vette più alte della catena Himalaiana.

La navicella atterrò silenziosa in un mondo ridotto al silenzio. Il capitano, dopo aver indossato la tuta protettiva, si apprestava a scendere rincorso da molti sentimenti contrastanti. Sentiva il peso di una missione costata moltissime risorse a tutte le popolazioni della galassia, sentiva un vago senso di rimorso per la scelta che i suoi antenati avevano compiuto migliaia di anni prima a scapito di quel novanta per cento della popolazione che fu costretta a rimanere su un pianeta che stava collassando. Sentiva cose che dall’alto dei suoi due metri e mezzo di altezza non capiva, perché quello che provava, proveniva dal sangue dei suoi avi ormai estinti.

Il capitano scese, la faccia assolutamente scura e priva di fisionomia scrutò insoddisfatta il terreno davanti a sé. I suoi piccoli occhi misero a fuoco un deserto costellato da piante sconosciute che subodoravano una presenza estranea nel loro territorio. Il corpo glabro rifletteva i raggi di un Sole che stava lentamente fagocitando con il suo calore, ciò che milioni di anni prima aveva creato.

Posò a terra un piccolo marchingegno elettronico dalla forma oblunga. Dalla cavità superiore uscì l’ologramma di una bandiera raffigurante due stelle gemelle di diverso colore che sembravano abbracciarsi con i loro campi gravitazionali. Sulla parte destra della bandiera, in alto, una stella a cinque punte, volutamente artificiosa nel suo disegno, indicava l’origine della loro specie: quel vecchio e ormai morto pianeta chiamato Terra.

L’esile capitano salutò la bandiera con un gesto militare. Diede un ultimo sguardo verso ovest, dove l’orizzonte si perdeva nei riflessi dell’oceano, e un attimo prima di imbarcarsi sulla navicella, dall’oceano emerse uno strano essere dall’aria umanoide. La sua pelle era bianca, squamosa, sotto le braccia due ampie membrane verdognole gocciolavano creando mille piccoli rivoli di acqua. Teneva la testa ben eretta, i piedi palmati artigliavano saldamente una roccia scivolosa ricoperta di muco biancastro. Il capitano lo osservò attentamente, lo riconobbe. I due si studiarono senza muoversi minimamente. Rimasero a fissarsi a lungo, finché il capitano, premendo un piccolo sensore posto sulla fibbia della sua cintura, attivò il raggio trasportatore che lo ricondusse a bordo della navicella.

Il pianeta Terra e’ privo di forme organiche intelligenti, presenta condizioni climatiche e atmosferiche inadeguate ad ogni forma di vita pluricellulare. Missione fallita.